Negli anni della crisi economica l’Italia ha visto impoverirsi anche il suo sistema universitario. E non di poco. È l’amara realtà che emerge dal Rapporto 2015 della Fondazione Res “Nuovi divari. Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud”. Dal 2008 al 2015, infatti, l’Università italiana ha fatto registrare una contrazione che va da un quinto a un sesto, a seconda dei parametri considerati, rispetto al momento di massima espansione riscontrata nel quinquennio precedente.
Un sistema più piccolo e più povero. Nel periodo preso in considerazione le immatricolazioni di nuovi studenti si sono ridotte di oltre 66mila unità arrivando nell’anno accademico 2014-2015 a meno di 260mila. Un calo del 20,4%. Negli stessi anni il corpo docente è passato da poco meno di 63mila a meno di 52mila unità (-17%), una diminuzione in termini percentuali poco inferiore a quella che ha riguardato il personale tecnico amministrativo ridottosi da 72mila a 59mila (-18%). Contestualmente è calata anche l’offerta formativa. I corsi di studio, infatti, sono scesi da 5634 a 4628 (-18%). A tutto questo si somma un taglio al fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo) diminuito, in termini reali, del 22,5% e arrivato ora a poco meno di 7 miliardi. Decisamente pochi se li si compara agli oltre 26 della Germania.
Italia fanalino d’Europa. “Una stima della spesa pubblica per l’istruzione universitaria per abitante – si legge nel rapporto Res – mostra che essa ammonta, in anni recenti, a 332 euro in Germania, a 305 in Francia e a 157 in Spagna, a fronte di un valore di 117 euro per il Centro-Nord e di soli 99 euro per il Mezzogiorno”. In questi anni il nostro Paese ha compiuto un disinvestimento molto forte nella sua università. Una scelta decisamente in controtendenza rispetto a tutti i Paesi avanzati e a quelli emergenti. Mentre in Germania il finanziamento pubblico all’università aumentava del 23%, in Italia si contraeva del 22%, percentuale di gran lunga superiore al taglio operato dagli altri Paesi mediterranei più colpiti dalla crisi. C’è poi un altro dato allarmante: la percentuale di giovani tra i 30 e i 34 anni in possesso di laurea rispetto al totale dei coetanei.
L’Europa ha fissato per il 2020 l’obiettivo del 40% di giovani laureati. In Italia, nel 2014, sono stati il 23,9%. Percentuale che la colloca all’ultimo posto fra i 28 stati membri dell’Unione.
E anche il traguardo del 26-27% – che il nostro Paese vorrebbe raggiungere nel prossimo quinquennio – non la schioderebbe dal fondo della classifica. Non solo: “Alla luce delle dinamiche in corso – afferma il rapporto – potrebbe essere superata anche dalla Turchia”.
Cervelli in fuga. Se si prende in esame la qualità, stando ai dati del Rapporto Res, l’Italia va incontro ad una spaccatura. Da una parte la “serie A”, “concentrata in un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna e Venezia (e qualche estensione territoriale a Torino, Trento, Udine)”. Dall’altra la “serie B”, che copre il resto del Paese. Sarà anche per questo che
quasi il 29% degli immatricolati del Sud decide di iscriversi in un’università fuori dalla Regione di residenza e otto volte su dieci la sceglie al Nord o al Centro.
La mobilità degli studenti, di per sé anche positiva, si configura però come un esodo a senso unico, che rischia di moltiplicare le difficoltà per il sistema universitario del Mezzogiorno i cui atenei risultano meno attrattivi di quelli del Centro-Nord. Tra le cause di questa “fuga” c’è una minore disponibilità di borse di studio e servizi ma pesa pure la qualità della vita nelle città e le differenti prospettive di collocamento nel mondo del lavoro.
Investire sulla formazione della persona. “Dai dati del Rapporto Res emerge una situazione molto preoccupante – commenta Marco Fornasiero, presidente nazionale maschile della Fuci – a iniziare dal problema del finanziamento pubblico al settore universitario italiano. In Germania si è incrementato l’investimento, da noi si è ridotto, anche se i circa 7 miliardi di euro, stando a quanto ha dichiarato il sottosegretario Faraone, dovrebbero essere implementati da uno stanziamento di altri 8 miliardi di euro”. Allarmante, secondo Fornasiero, è anche “lo squilibrio tra Nord e Sud”. Per il presidente della Fuci “ci dovrebbe essere una ripartizione più omogenea sul territorio nazionale dell’offerta universitaria”. “Anche perché – aggiunge – gli studi universitari sono il completamento di un cammino di formazione che può portare fermento nella vita sociale e culturale capace di innescare sviluppo, non solo economico. In molti territori, giovani con competenze possono creare cambiamenti, spendendosi in modo consapevole nell’interesse del bene comune”. Di fronte “al generale scoraggiamento dei giovani rispetto a quello che potrebbe essere il loro futuro, bisognerebbe dare loro di più la parola, cercando di valorizzare i tanti giovani bravi che in molti casi oggi si trovano a dover andare all’estero e che andrebbero coinvolti all’interno delle stesse università”. Ma il vero investimento da fare è quello indirizzato a “far comprendere come l’istruzione universitaria sia fondamentale per una formazione globale della persona. Studiare all’università non ha solo risvolti pratici e professionali ma innanzitutto lo si fa per una cura e un desiderio di ricerca personale”. In questo senso, conclude Fornasiero, “l’invito a ‘uscire’ che arriva da Papa Francesco, in ambito universitario non significa solo incontrare e dialogare con chi non la pensa come noi, ma soprattutto riconsegnare alla società ciò di cui ci si è arricchiti nell’esperienza universitaria”.