“Tornare all’essenziale”, perché “le resistenze, le fatiche e le cadute delle persone e dei ministri” sono anche “lezioni” e “occasioni di crescita, e mai di scoraggiamento”. È l’invito che fa da sfondo al terzo discorso di Papa Francesco alla Curia Romana, in occasione degli auguri natalizi. Dalla Sala Clementina, scusandosi per non “parlare in piedi” a causa di un’influenza in corso, Papa Francesco propone un “catalogo delle virtù necessarie” – “non esaustivo” – “per chi presta servizio in Curia e per tutti coloro che vogliono rendere feconda la loro consacrazione o il loro servizio alla Chiesa”. Dopo il “catalogo delle malattie curiali” dell’anno scorso – scherza Francesco a braccio – “oggi dovrei parlare degli antibiotici”, perché “alcune di tali malattie si sono manifestate nel corso di questo anno, causando non poco dolore a tutto il corpo e ferendo tante anime, anche con lo scandalo”. Ricevendo, poco dopo in Aula Nervi, i dipendenti vaticani, il Papa chiede perdono “per gli scandali che ci sono stati nel Vaticano”, auspicando che “chi ha sbagliato si ravveda e possa ritrovare la strada giusta”. Tuttavia, assicura Francesco, “la riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda”. E la bussola, nell’anno giubilare appena iniziato, è la misericordia: “Sia la misericordia – la preghiera finale – a guidare i nostri passi, a ispirare le nostre riforme, a illuminare le nostre decisioni. Sia essa a insegnarci quando dobbiamo andare avanti e quando dobbiamo compiere un passo indietro”.
Lo spirito cattivo e lo spirito buono. “Le malattie, e perfino gli scandali non potranno nascondere l’efficienza dei servizi, che la Curia Romana con fatica, con responsabilità, con impegno e dedizione rende al Papa a tutta la Chiesa e questa è una vera consolazione”. Fin dall’inizio, e poi più volte scusandosene persino con gli uditori, il Papa cita Sant’Ignazio, le cui parole suonano come un chiaro monito ai membri della Curia: “E’ proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, porre difficoltà e turbare con false ragioni, per impedire di andare avanti; invece è proprio dello spirito buono dare coraggio ed energie, consolazioni e lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimuovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del bene”.
“Chi rinuncia alla propria umanità rinuncia a tutto”. Dopo missionarietà e pastoralità, idoneità – antidoto a “raccomandazioni e tangenti” – e sagacia, il Papa dedica il terzo binomio di “virtù necessarie” a spiritualità e umanità, e torna sul un tema a lui caro: la specificità dell’umanesimo cristiano. “L’umanità – spiega – è ciò che ci rende diversi dalle macchine e dai robot che non sentono e non si commuovono.
Quando ci risulta difficile piangere seriamente o ridere appassionatamente allora è iniziato il nostro declino e il nostro processo di trasformazione da uomini in qualcos’altro”.
“Io ho il vizio dei neologismi”, dice a braccio Francesco. E usa la parola “innocuità”, come “capacità di far emergere il meglio da noi stessi, dagli altri e dalle situazioni agendo con attenzione e comprensione”, citando subito prima Sant’Ignazio, per spiegare come “ogni eccesso è indice di qualche squilibrio, sia eccesso nella razionalità, sia nell’amabilità”, precisa ancora fuori testo riferendosi al binomio razionalità a amabilità.
Carità e verità, ammonisce nel binomio seguente, sono “due virtù indissolubili dell’esistenza cristiana: “al punto che la carità senza verità diventa ideologia del buonismo distruttivo e la verità senza carità diventa ‘giudiziarismo’ cieco”.
“L’onesto non spadroneggia mai sulle persone o sulle cose che gli sono affidate da amministrare”. Per Francesco, l’onestà “è la base su cui poggiano tutte le altre qualità” ed è abbinata alla maturità come “ricerca di raggiungere l’armonia tra le nostre capacità fisiche, psichiche e spirituali”: un processo di sviluppo “che non finisce mai e che non dipende dall’età che abbiamo”. “Rispettosità” implica anche il rispetto “del segreto e della riservatezza” e si accompagna all’umiltà, “la virtù dei santi e delle persone piene di Dio, che più crescono nell’importanza più cresce in loro la consapevolezza di essere nulla”.
“E’ inutile aprire tutte le Porte Sante di tutte le basiliche del mondo se la porta del nostro cuore è chiusa all’amore, se le nostre mani sono chiuse al donare, se le nostre case sono chiuse nell’ospitare e se le nostre chiese sono chiuse all’accogliere”.
Il riferimento non è solo al Giubileo appena iniziato, ma anche a quella che il Papa con un neologismo chiama “doviziosità”, propria di chi sa “che più si dà più si riceve”. Va abbinata all’attenzione, che è “il curare i dettagli, l’offrire il meglio di noi e il non abbassare mai la guardia sui nostri vizi e mancanze”.
“Come un buon soldato”. Francesco usa una metafora militare per descrivere l’impavidità che è propria di chi agisce “con audacia e determinazione e senza tiepidezza”. La prontezza, che gli si accompagna, consiste nel non attaccarsi “alle cose materiali che passano”, nell’”essere sempre in cammino senza mai farsi appesantire accumulando cose inutili” o facendosi dominare dall’ambizione.
Sobrietà come stile di vita. Insieme all’affabilità, il “catalogo” del Papa si conclude con la sobrietà, “ultima virtù ma non per importanza”: “è guardare il mondo con gli occhi di Dio e con lo sguardo dei poveri e dalla parte dei poveri”. Perché “siamo manovali, non capomastri”, dice alla fine del discorso leggendo una preghiera attribuita a monsignor Oscar Arnulfo Romero. “Noi siamo profeti di un mondo che non ci appartiene”.