Se il Natale è sempre per chi crede la festa di un Dio che non è stanco degli uomini e incomincia anzi sempre di nuovo ad amarli, quello di quest’anno si colora dei caratteri del Giubileo della misericordia, indetto da Papa Francesco perché la Chiesa viva un’esperienza rinnovata della misericordia divina e la annunci con slancio e convinzione a ogni uomo.
“Misericordia – scrive il Papa – è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro… Misericordia è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre, nonostante il limite del nostro peccato” (Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, 11 Aprile 2015, 2).
Per aiutare, dunque, chi lo desideri a vivere questo Natale come un tempo di misericordia, aprendosi al senso più profondo di questa parola, vorrei riflettere sui termini usati nella Bibbia per dire “misericordia”. La “lingua santa” (leshon ha-qodesh), l’ebraico biblico, che dispone di un numero molto limitato di termini (5750), riesce ad esprimere la realtà vasta e complessa dell’esperienza umana facendo ricorso a immagini che rendono in maniera densamente evocativa l’idea che si intende comunicare: così, per dire “misericordia” l’ebraico usa “rachamim”, termine che designa propriamente le viscere materne, il grembo in cui ha inizio ogni vita.
È l’idea di una gratuità originaria (la vita non ce la diamo noi, ci è donata!), di una custodia primordiale che accoglie, nutre e protegge, e di un’oscurità ospitale in cui la creatura concepita vive in simbiosi con chi la porta in sé e ne riceve alimento, impulso e custodia. Sul piano delle relazioni che ci fanno umani l’immagine richiama il sentimento intimo di coappartenenza che lega il concepito alla madre, il legame originario dell’amore che fa vivere fra chi dà vita e chi la riceve: sentimento di tenerezza e di commozione profonda (“Il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza”: Geremia 31,20).
La misericordia così intesa evoca così il mondo degli affetti originari, l’amore viscerale che unisce il generato a chi gli ha dato la vita, quell’amore che per sua natura è gratuito e non condizionato dalla reciprocità, mosso unicamente dalla volontà di bene per l’altro: in questo senso San Bernardo può dire che “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama”.
L’altro termine che l’ebraico usa per rendere l’idea di misericordia è “chesed”: affine nel significato a “rachamim”, se ne differenzia per la sua genesi. Mentre l’amore viscerale è originario e spontaneo, “chesed” è frutto di una deliberazione e si colloca in un rapporto connotato da diritti e doveri: è il bene dovuto, o almeno quello che ci si aspetta come tale. È l’amore con cui l’Eterno si è destinato al suo popolo, quasi vincolandosi ad esso, e per il quale il Salmista può dire “Ricòrdati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre” (Sal 25,6).
È la bontà che si esprime nel perdono, nella compassione e nella pietà, sulla base della fedeltà a un impegno che comporta dedizione piena in forza di vincoli di natura o per un dovere liberamente assunto. In questo quadro si comprende come l’idea di misericordia nell’Antico Testamento si colleghi a quella di alleanza, di promessa e di compimento: tutto il mondo spirituale del patto fra l’Eterno e il suo popolo è nel segno della misericordia, di un amore cioè liberamente scelto e voluto fino in fondo, nella realizzazione fedele del disegno che esso comporta per il bene dell’amato.
È quanto esprime in maniera intensissima il profeta Osea: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (2,21s). È la sicurezza che nel tempo dell’esilio e del difficile ritorno alla terra dei Padri testimonia l’ultimo Isaia: “Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa d’Israele. Egli ci trattò secondo la sua misericordia, secondo la grandezza della sua grazia” (63,7).
Il greco del Nuovo Testamento è erede del vocabolario ebraico della misericordia: l’espressione usata per rendere “rachamim” è “splánchna”, che significa letteralmente “viscere”. Da essa deriva il verbo usato nella parabola del figliuol prodigo per esprimere la reazione del Padre alla vista del figlio che ritorna da lui: “esplanchníste” – “ebbe compassione” (Luca 15,20). È un Padre dalle “viscere” materne quello che Gesù presenta, un Dio dall’amore gratuito e irradiante, pronto sempre a cominciare di nuovo con chi ritorna a lui con cuore pentito e bisognoso di misericordia. È un Dio “visceralmente” innamorato della sua creatura, come può esserlo una madre verso il figlio delle sue viscere, a un livello di perfezione e di purezza nell’amore quale solo il Creatore e Redentore dell’uomo può raggiungere.
La misericordia evoca così le idee di gratuità, di custodia e di affidabilità incondizionata, fondate su un rapporto d’amore originario, fonte di sempre nuova vita: ciò di cui tutti, senza eccezione alcuna, abbiamo nostalgia e bisogno, oltre la stessa consapevolezza che possiamo averne. L’augurio per questo Natale dell’anno giubilare della misericordia, allora, vorrei formularlo così: che sia per tutti un tempo nuovo di misericordia ricevuta in dono e offerta con gratuità, nella gioia semplice ed esigente di amare, lasciandosi amare dal Dio che si fa vicino nella piccolezza di un Bambino.
***
Fonte: Il Sole 24 Ore, giovedì 24 dicembre 2015, pp. 1 e 21