Ilva è ufficialmente in vendita, mentre slitta al 30 giugno 2017 il termine per ottemperare al piano ambientale e sanitario. Da qualche giorno su quotidiani nazionali e internazionali è stato pubblicato l’invito all’acquisto del colosso dell’acciaio europeo. Il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, lunedì ha firmato il decreto che autorizza la cessione dei complessi aziendali dell’Ilva, in amministrazione straordinaria da poco più che un anno, e le procedure per il trasferimento delle aziende che fanno capo alle società dell’intero gruppo. I gruppi singoli o le cordate interessate dovranno venire allo scoperto in un mese, mentre le procedure che porteranno alla vendita si dovranno concludere entro il 30 giugno prossimo.
Emendamenti. Intanto ieri il decreto è giunto alle commissioni Ambiente ed Attività produttive della Camera, che hanno stabilito, assecondando un emendamento del Pd, di modificare il termine ultimo per realizzare il piano ambientale che si sarebbe dovuto completare entro fine 2016. La data di chiusura è slittata a giugno 2017 e nei fatti il piano sarà garantito con soldi statali.
I commissari governativi di Ilva potranno ottenere 800 milioni di euro per risanare gli impianti non più sotto forma di prestito, come prevedeva la legge di Stabilità, ma di finanziamenti. Poi lo Stato potrà rivalersi sui Riva, proprietari del siderurgico, chiedendo la restituzione del denaro anticipato.
Con l’obiettivo di salvare il salvabile, sono state prorogate l’Autorizzazione integrata ambientale e l’Autorizzazione all’esercizio di impresa. Chi vorrà comprare potrà ottenere un ulteriore prestito dallo Stato di 300 milioni di euro, da restituire con gli interessi. Tra gli emendamenti anche quello di facilitazione dell’accesso al credito per i fornitori di Ilva, con cui l’azienda ha più di 150 milioni di debiti.
Iter legislativo. Il prossimo passo sarà la discussione nell’aula di Montecitorio, che avverrà l’11 e il 12 gennaio, poi il decreto arriverà in Senato. La conversione in legge è prevista per i primi di febbraio. Intanto, ad oggi, è ancora aperta la procedura d’infrazione dell’Europa contro l’Italia, accusata di fornire aiuti di Stato all’Ilva, ledendo così la concorrenza europea. Con l’emendamento al decreto approvato ieri, da Roma sperano di aver aggirato l’ostacolo, rifacendosi ai recenti accordi sulle emissioni di Co2 del summit di Parigi.
Le dichiarazioni di Renzi ed Emiliano. “Che qualcuno amerebbe veder chiudere Taranto – ha detto in un’intervista a ‘La Stampa’ il premier Matteo Renzi qualche giorno fa – è cosa nota ma non lo accetteremo”. Sul decreto è intervenuto anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che già nelle scorse settimane aveva avanzato ipotesi alternative di produzione. “La trasformazione della fonte energetica fondamentale da carbon coke a gas, rappresenta l’unica reale possibilità di conciliare esigenze produttive e salute. L’utilizzo del gas naturale e del cosiddetto preridotto, abbatte le emissioni nocive del 100% e del 60% quelle di CO2”.
India, Corea e una cordata italiana. All’interno della fabbrica di Taranto, intanto, si vive in attesa. Sono in tredicimila i dipendenti dell’Ilva, solo nel capoluogo ionico, senza considerare i migliaia dell’indotto. Tempo fa si era fatta strada l’ipotesi di acquisizione da parte del colosso franco-indiano Arcelor Mittal, poi venuta meno. Il gruppo è sembrato tornare all’attacco, chiedendo però una garanzia di non punibilità per le azioni messe in atto sulla base del piano ambientale ed inoltre carta bianca sulla gestione. Il ministro Guidi, invece, ha parlato dell’interesse di una cordata italiana, con l’intervento della Cassa depositi e prestiti ad accollarsi il 40% del gruppo, quella “bad company”, in cui confluirebbero i costi dell’ambientalizzazione della fabbrica e i debiti con i fornitori. La parte “sana” verrebbe ceduta invece ai privati. Ultimo, in ordine di tempo, si registra anche l’interessamento del colosso sud coreano Posco.