Ventuno anni per fare la storia, iniziando quasi dal nulla. Si potrebbe sintetizzare così la vicenda del Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir), che il 31 dicembre scorso ha terminato il suo mandato, dopo 61 condanne e 14 assoluzioni per il genocidio del 1994. Risultati arrivati grazie a 5.800 giorni di udienze tenute spesso in condizioni proibitive: basti pensare che per quasi tre anni, la corte con sede ad Arusha in Tanzania non ha avuto a disposizione un’aula per le udienze. Il primo capo d’imputazione fu addirittura approvato in una stanza d’albergo mentre in città erano frequenti i blackout e mancava spesso l’acqua corrente.
Tentativi di riconciliazione. Sono stati oltre 3.000 i testimoni che hanno ripercorso i “cento giorni di sangue”, durante i quali circa 800mila tra componenti della minoranza etnica tutsi e membri moderati della maggioranza hutu furono massacrati da miliziani hutu spalleggiati dalle autorità del tempo. Anche la Chiesa locale ha subito il peso delle divisioni e quando con la fine delle ostilità si è cercata una riconciliazione, i fedeli di quello che era considerato uno dei Paesi più cristiani del continente (65% di cattolici e 15% di protestanti) sono stati invitati a fare la loro parte. “Quello per la pacificazione è stato un lavoro enorme – ricorda l’abbé Vincent Gasana, segretario della commissione Giustizia e Pace della Chiesa ruandese – e la Chiesa vi ha contribuito: in varie lettere pastorali i vescovi hanno invitato la popolazione a partecipare attivamente all’esperienza dei gaçaça”. Queste corti popolari, ispirate alla giustizia tradizionale, furono istituite dal governo per affiancare i tribunali ufficiali e cercare, quando possibile, di iniziare anche percorsi di riconciliazione. I casi di più alto profilo erano invece affrontati dalla giustizia ordinaria e dal Tpir, che nel 1998 emise la prima sentenza, contro Jean Paul Akayesu, già sindaco della località di Taba. Pochi mesi prima si era invece dichiarato colpevole di genocidio l’ex primo ministro Jean Kambanda, che sarebbe diventato il primo ex capo di governo condannato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. “Il tribunale per il Rwanda, come quello per la ex Yugoslavia – nota a questo proposito Alice Riccardi, docente di diritto penale internazionale dell’università Lumsa – ha segnato la nascita del diritto penale internazionale moderno dopo i processi di Norimberga e Tokyo” di fine anni Quaranta.
Eredità complessa. Effetti ugualmente importanti il Tpir li ha avuti a livello continentale: “Ha creato linee guida per le altre corti che si sono occupate di crimini commessi in Africa, in particolare in materia di cooperazione con gli Stati per gli arresti, di raccolta delle prove, di interpreti da mettere a disposizione”, aggiunge Riccardi. “Soprattutto – prosegue la professoressa – ha insegnato che più vicina è la sede della corte al luogo in cui i crimini sono stati commessi, maggiori sono gli effetti positivi sulla riconciliazione nazionale che questi procedimenti dovrebbero aiutare, perché si possono raggiungere direttamente le vittime dei crimini”. Sull’operato dell’istituzione, però, pesano anche le critiche di chi sottolinea come 21 anni, pur in presenza di un compito quasi senza precedenti, siano troppi per ottenere giustizia. Un’ambiguità che ricalca quella del Rwanda di oggi: il governo del tutsi Paul Kagame (di fatto al potere già da dopo il genocidio) rivendica infatti il merito della pacificazione, ma è stato accusato di aver applicato in maniera strumentale le leggi varate per contrastare “l’ideologia genocidaria”. A sfuggire al giudizio, in particolare, sarebbero stati proprio gli uomini dell’attuale presidente, che nel 1994 guidava una ribellione armata antigovernativa. Non è però alle divisioni politiche che guarda l’abbé Gasana, quando parla della necessità di “promuovere ancora un’armonia sociale” nel Paese. “La nostra società – spiega infatti – è composta di sopravvissuti, delle famiglie dei condannati, di detenuti scarcerati dopo aver scontato la pena o dopo aver confessato, di testimoni delle stragi, di chi è stato toccato da vicino dalle conseguenze del genocidio. C’è ancora bisogno di far incontrare questi gruppi, di aiutarli con la preghiera ma anche di fare formazione sui diritti umani e la pace”, conclude il sacerdote.