INDONESIA – Jakarta come Parigi? Sono state sei le esplosioni, avvenute in rapida successione durante la mattinata (ora locale) che hanno scosso il 14 gennaio il centro della enorme e caotica capitale dell’Indonesia, con i suoi 11 milioni di abitanti. Bombe, sparatorie, kamikaze, tutte nei pressi di Thamrin street, un quartiere commerciale e finanziario non lontano dalla sede delle Nazioni Unite e delle ambasciate. Assalti compiuti vicino ad un noto locale di Starbucks frequentato da occidentali e nel parcheggio del popolare centro commerciale di Sarinah, dove due aggressori si sono fatti esplodere a bordo di due motociclette di fronte ai posti di blocco delle forze dell’ordine. Bilancio: sette vittime, di cui cinque attentatori, più un cittadino canadese e un indonesiano. Una ventina di feriti, tra cui un olandese, dipendente dell’Onu, in condizioni molto gravi. Quattro gli arrestati. Si sospetta che l’attacco sia stato compiuto da un gruppo legato allo Stato islamico (Daesh/Isis). La polizia indonesiana ha affermato che gli assalitori “hanno imitato le azioni terroristiche di Parigi” e che la mente sarebbe Bahrun Naim, un indonesiano combattente in Siria. L’allerta nel più popoloso Paese musulmano del mondo – circa 250 milioni di abitanti – era già alta da alcuni giorni, dall’arresto di nove presunti militanti dello Stato islamico a dicembre, accusati di aver pianificato un attentato nella capitale. Alcuni osservatori rilevano un rinvigorimento del fondamentalismo jihadista in Indonesia: si stimano un migliaio di membri legati alla rete Isis e circa 500 foreign fighters in Siria. Dal 2000 ad oggi sono stati otto i grandi attentati, tra cui quello negli hotel di Bali frequentati da turisti nel 2002 e in due hotel di Jakarta nel 2009.
Ora la situazione è tornata sotto controllo, ma come racconta Matteo Amigoni, operatore di Caritas italiana in Indonesia e Filippine, “hanno chiesto alle persone di non uscire di casa”.
Minacce a dicembre. “A dicembre – riferisce – era circolata una informativa delle Nazioni Unite che metteva in guardia dall’andare nei posti troppo frequentati dagli occidentali ma non si aspettavano un attacco di questa entità. È vero che ci sono combattenti indonesiani in Siria e che in alcune zone, come ad Aceh, viene applicata la sharia, ma faccio fatica a dire che ci sia un’avanzata del fondamentalismo. Semmai ci sono molte lotte interne tra fazioni sunnite e sciite”.
Le minoranze cristiane, “anche se non è così facile costruire chiese per via di un proselitismo più aggressivo da parte di alcuni gruppi – precisa -, convivono in armonia e pace. Basti pensare che a Jakarta si usa il parcheggio della moschea per andare a messa nella basilica cattolica”.
Lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che è stato in Indonesia a novembre, dopo la visita alla moschea ha incontrato nella cattedrale di Santa Maria l’arcivescovo Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo.
Quando qualcuno viene arrestato – ha commentato Ridwan Habib, analista di intelligence e difesa dell’Università dell’Indonesia all’agenzia cattolica asiatica Ucanews – , altri provano immediatamente a lanciare attacchi. Questa è la loro tattica. Hanno servizi segreti e strategie. Ricordiamo che una volta Daesh disse che l’Indonesia avrebbe presto avuto l’attenzione del mondo”. Per padre Franz Magnis-Suseno, gesuita e docente di filosofia dell’università di Jakarta, “questo attacco deve rappresentare un campanello d’allarme per tutti gli indonesiani e soprattutto per i musulmani – ha detto ad Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre) -. Devono prendere coscienza del pericolo del terrorismo”. A suo avviso l’obiettivo “non è né la comunità cristiana né altre minoranze religiose, quanto un messaggio diretto all’Occidente, come i recenti fatti in Turchia ed Egitto”.
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