Un abbraccio fraterno sulla scalinata adiacente alla Sinagoga. Poi preso il microfono in mano, una semplice parola – “Benvenuto” – scandita con tipico accento romano e un sorriso raggiante. Per chi lo conosce, sa bene che il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segninon si lascia andare facilmente ai sorrisi. Ma l’ospite è papa Francesco e il rapporto con lui è da tempo consolidato.
Papa Francesco, domenica 17 gennaio in visita alla Sinagoga di Roma. La storia forse è già stata scritta dai suoi predecessori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Nel 2016, il capitolo nuovo dei rapporti tra gli ebrei di Roma e Papa Bergoglio si apre all’insegna della semplicità, dell’amicizia. “Oggi il tempio accoglie con gratitudine la terza visita di un Papa e Vescovo di Roma”, dice Rav Di Segni. E poi, sempre sorridendo, aggiunge:
“Secondo le tradizioni giuridiche rabbiniche, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqà, una consuetudine fissa”.
Francesco si muove con naturalezza e disinvoltura. Si vede che ha alle spalle un passato di amicizia e conoscenza del popolo ebraico che gli proviene dalla sua esperienza vissuta a Buenos Aires. Ogni suo gesto, ogni sua parola non sono casuali. Hanno un peso storico e una ricaduta immediata sulla comunità ebraica. Prima di entrare in sinagoga,
il Papa si sofferma davanti alla lapide che ricorda Stefano Gai Tachè, il bimbo di soli 2 anni ucciso dai terroristi palestinesi nell’attentato del 1982.
Quella tragedia è il “segno” – spiega la presidente della comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello – che Roma è stata già colpita dal terrorismo di matrice islamica. E Roma oggi è simbolo di tutte le comunità ebraiche presenti in Europa e, prime tra tutte quella di Gerusalemme, colpite dal radicalismo con “il coltello in mano”.
In Sinagoga il Papa pronuncia parole importanti e attese.Ebrei e cristiani – dice – devono “sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune”. Il messaggio si rivolge ai cristiani che “per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche”. E’ Renzo Gattegna,presidente delle 21 comunità ebraiche presenti in Italia, a spiegare l’importanza di queste parole.
Purtroppo ancora oggi “circolano con frequenza pregiudizi e discorsi improntati a un disprezzo che ci offende e ci ferisce”.
Occorre allora diffondere “presso tutta la popolazione” la conoscenza del grande lavoro svolto per incrementare l’amicizia e la fratellanza tra cattolici ed ebrei, scendere dai “vertici” del dialogo e sconfiggere una volta per sempre i “falsi simboli” e “stereotipi” che serpeggiano tra la gente. Ma anche in questo caso, papa Francesco ha preso una decisione non casuale: ha scelto di andare alla Sinagoga di Roma il 17 gennaio, giorno in cui ormai da 20 anni ebrei e cattolici in Italia promuovono a livello di base, nelle parrocchie e sale di comunità, la Giornata per l’approfondimento del loro dialogo.
Ma la presenza di papa Francesco in Sinagoga è dettata anche dalla urgenza dei tempi. Guerre e terrorismi infiammano i Paesi del vicino Oriente e le città europee.
“Dio è il Dio della vita” e “la violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome”.
Gli fa eco Ruth Dureghello che incalza: “La fede non genera odio. La fede non sparge sangue, la fede richiama al dialogo”. E subito aggiunge: “La nostra speranza è che questo messaggio giunga ai tanti musulmani che condividono con noi la responsabilità di migliorare il mondo in cui viviamo. Solo insieme possiamo farcela”.
Ad ascoltare seduto tra i banchi della Sinagoga c’è l’Imam Yahya Pallavicini, vice presidente della Coreis Italiana.
Nella sua visita alla Sinagoga di Roma, papa Francesco rende omaggio alle vittime della Shoah e ai sempre più rari sopravvissuti rimasti ancora in vita alla immane tragedia del ‘900. Tutta l’assemblea si alza in piedi e applaude con commozione. Papa Francesco scandisce lentamente le parole : “Oggi desidero ricordarli col cuore in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate”.
“Il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace”.
La realizzazione della pace è un tratto di strada tutta in salita, costellata di pregiudizi, di storie intrise di dolore, di sangue e persecuzioni. Ebrei, cristiani e musulmani possono, anzi devono, percorrerla insieme riconoscendosi fratelli, figli dell’unico Dio. La visita alla sinagoga rimarrà alla storia come una tappa importante di questo lungo viaggio dell’umanità verso il giorno in cui – a dirla con le parole di Rav. Di Segni – “le divisioni si risolveranno” e “le grandi idee che ci identificano come credenti saranno messe al servizio della collettività”.