La profezia richiama un futuro promettente (quello in Dio) verso il quale dobbiamo dirigere la nostra vita per poter farne parte, un futuro che non dipende solo da noi, dipende essenzialmente da Dio, ma il nostro farne parte dipende certamente anche da noi e dal come ci inseriamo a prepararlo con la nostra vita.
Stiamo celebrando il Giubileo della Misericordia: esso porta con sé un ineliminabile richiamo alla conversione, all’esigenza di convertire la nostra vita per essere segno visibile di quel futuro di bene che Dio vuole per l’umanità intera. Dobbiamo riconoscere che anche noi dobbiamo convertirci: il richiamo di papa Francesco è incessante in questa linea ed è rivolto a tutta la Chiesa, e con chiarezza anche ai religiosi: indicendo l’anno dei religiosi, che idealmente oggi concludiamo con questo nostro Giubileo, ha indicato anche alcune piste fondamentali sulle quali deve misurarsi questa conversione.
Il primo obiettivo da perseguire indicato da papa Francesco è guardare il passato con gratitudine. Solo riscoprendo con gratitudine a Dio la grazia delle proprie origini ci può essere l’impulso alla conversione: Dio che ha ispirato e benedetto le origini, accompagnando i nostri istituti di vita consacrata con il suo amore misericordioso è il Dio che sta davanti a noi e ci sprona a continuare e completare il cammino iniziato dai fondatori e non ancora concluso. La gratitudine del passato non può oscurare il cammino del presente. Infatti:
«Sia quest’Anno della Vita Consacrata un’occasione anche per confessare con umiltà, e insieme con grande confidenza in Dio Amore (cfr1 Gv 4,8), la propria fragilità e per viverla come esperienza dell’amore misericordioso del Signore; un’occasione per gridare al mondo con forza e per testimoniare con gioia la santità e la vitalità presenti nella gran parte di coloro che sono stati chiamati a seguire Cristo nella vita consacrata» (n. 1).
Ritroviamo dunque e ravviviamo in noi la consapevolezza che, a partire dalle nostre origini e lungo tutto il percorso di vita a cui siamo stati chiamati, possiamo essere voce, espressione del messaggio divino, cioè profeti del suo Amore misericordioso Proprio sulla dimensione profetica della vita consacrata verterà la prima parte della mia conversazione che si concluderà con alcune riflessioni orientate a recuperarla e approfondirla nei risvolti del contesto quotidiano
Un aspetto importante di questa dimensione profetica per la Chiesa universale e non solo per quella locale è la testimonianza della vita vissuta come vocazione e il non senso di una vita senza vocazione, in quanto vita senza futuro verso cui andare. Afferma il documento Nuove vocazioni per una nuova Europa di qualche anno fa, ma ancora molto attuale: i contrasti nei quali la vita di un giovane oggi si trova un po’ impelagata, almeno in Europa, si riflettono
inevitabilmente sul piano della progettazione del futuro, che è visto — da parte dei giovani — in un’ottica conseguente, limitata alle proprie vedute, in funzione d’interessi strettamente personali (l’autorealizzazione).
È una logica che riduce il futuro alla scelta d’una professione, alla sistemazione economica, o all’appagamento sentimentale-emotivo, entro orizzonti che di fatto riducono la voglia di libertà e le possibilità del soggetto a progetti limitati, con l’illusione d’esser liberi.
Sono scelte senza alcun’apertura al mistero e al trascendente, e fors’anche con scarsa responsabilità nei confronti della vita, propria e altrui, della vita ricevuta in dono e da generare negli altri. È, in altre parole, una sensibilità e mentalità che rischia di delineare una sorta di cultura antivocazionale. Come dire che nell’Europa culturalmente complessa e priva di precisi punti di riferimento, simile a un grande pantheon, il modello antropologico prevalente sembra esser quello dell’«uomo senza vocazione».
Eccone una possibile descrizione. «Una cultura pluralista e complessa tende a generare dei giovani con un’identità incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale. Molti giovani non hanno neppure la «grammatica elementare» dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso, essi «tentano»! In mezzo alla grande quantità e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaiono dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del loro avvenire, hanno ansia davanti ad impegni definitivi e si interrogano circa il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza ad ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente socioculturale ed a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che «mi va», di ciò che «mi fa sentire bene» in un mondo affettivo fatto su misura» (n. c).
Se la vita consacrata vuole esercitare tutta la sua carica profetica nel mondo di oggi deve essere consapevole innanzitutto che questa mentalità penetra dentro le sue mura, non solo attraverso i giovani che si presentano alle sue porte chiedendo di essere ammessi a farne parte, ma un po’ in tutti perché è la mentalità che respiriamo tutti e che ci viene propinata da un’infinità di messaggi anche di confratelli e consorelle. Questa mentalità va combattuta, ovviamente ponendosi controcorrente. Le forme nelle quali si presenta nella vita consacrata sono molteplici, ma tutte provocano una forma di entropia, cioè di chiusura nei confronti della spinta missionaria che essa porta intrinsecamente in sé.
La perdita di prospettiva vocazionale porta verso un appiattimento, una conservazione dell’esistente in nome di una tradizione che non trova più il referente per la quale era stata pensata e che si esprime nel ‘si è sempre fatto così’ senza il coraggio di una analisi dell’adeguatezza del ‘si è sempre fatto così’ alle urgenze della situazione che è cambiata; porta a comunità rifugio per evitare le sfide della vita più che per introdurre nella vita personale la carica profetica della vita come vocazione.
Papa Francesco nella sua Lettera apostolica afferma: «L’Anno della Vita Consacrata ci interroga sulla fedeltà alla missione che ci è stata affidata. I nostri ministeri, le nostre opere, le nostre presenze, rispondono a quanto lo Spirito ha chiesto ai nostri Fondatori, sono adeguati a perseguirne le finalità nella società e nella Chiesa di oggi? C’è qualcosa che dobbiamo cambiare? Abbiamo la stessa passione per la nostra gente, siamo ad essa vicini fino a condividerne le gioie e i dolori, così da comprendere veramente le necessità e poter offrire il nostro contributo per rispondervi?» (n. 2).
Vivere la vita come vocazione significa rispondere ad altri da sé; capacità di mettersi in viaggio, come Abramo, fidandosi solo della promessa; capacità di lasciare terre apparentemente sicure per inoltrarsi si strade non ancora percorse, non per il gusto dell’avventura di esploratori in cerca di notorietà mediatica, bensì sorretti dalla promessa evangelica che manda anche nel nascondimento. I trenta anni di Gesù vissuti nel nascondimento di Nazareth sono parte integrante del vivere il mandato ricevuto dal Padre.
Si tratta ora di chiedersi quale sia questa vocazione di cui abbiamo parlato. Sinteticamente possiamo dire che si tratta di vocazione all’amore e al dono di sé. Non possiamo che richiamare il significato sponsale della vita qua talis.
Il senso della vita non sta nella chiusura su se stessi, ma nell’apertura all’altro come dimensione indispensabile della vita umana: il “non è bene che l’uomo sia solo” non è ovviamente da interpretare nell’esclusiva dimensione dell’eterosessualità. L’alterità è costitutiva della identità. Ma non può trattarsi di un’apertura qualsiasi, strumentalizzante dell’altro per esempio, ma di apertura d’amore, di dono di sé, più che di dono di cose: si possono donare cose, ma rimanere chiusi su se stessi. Si può vivere economicamente poveri, ma incapaci di relazioni di amore e di donazione, e questo può accadere anche nella vita consacrata generando comunità amorfe di monadi che si muovono ognuno per conto proprio.
L’unica possibilità di una relazione che rispetti la dignità e la libertà delle persone coinvolte è la relazione d’amore. Lo ricorda molto bene la Familiaris Consortio: siamo stati creati dall’amore e perciò stesso siamo chiamati all’amore:
Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (cfr. Gen 1,26s): chiamandolo all’esistenza per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore. Dio è amore (1Gv 4,8) e vive in se stesso un mistero di comunione personale d’amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione (cfr. Gaudium et Spes, 12). L’amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano.
Giovanni Paolo II ha ben espresso questa vocazione universale quando ha parlato del ‘significato sponsale del corpo’, quindi della vita. Infatti, con le sue parole:
“Il corpo umano … visto nel mistero stesso della creazione … racchiude fin “dal principio” l’attributo “sponsale”, cioè la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e – mediante questo dono – attua il senso stesso del suo essere ed esistere” (16-1-1980).
Ciò significa che questa vocazione all’amore non solo non è privilegio della vita consacrata, di persone in qualche modo speciali, ma riguarda tutti gli esseri umani, poiché questo è il progetto creativo di Dio inscritto nella nostra stessa carne. Giovanni Paolo II vuole, con l’espressione ricordata, sottolineare il fatto che la vocazione di cui stiamo parlando non è un qualcosa di imposto dall’esterno, quasi fosse una costrizione umiliante per l’essere umano, costretto a vivere qualcosa che non gli appartenga o che lo porti verso forme di alienazione o di non realizzazione della propria vita.
L’unica autorealizzazione possibile dell’essere umano è solo rispondendo pienamente a questa vocazione all’amore e al dono di se stessi. Infatti, la GS 24, con estrema concisione e chiarezza, può affermare che l’essere umano non può “ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”. Preferisco tradurre «’non può realizzare se stesso’ se non attraverso un dono sincero di sé», poiché quel ‘ritrovarsi’ (invenire se ipsum) può certo avere il senso del ritrovare la propria vera identità, ma anche e soprattutto, realizzare se stesso in questa sua identità umana.
La vita consacrata, quindi, vissuta come deve essere, è profezia di ciò a cui è chiamato ogni essere umano: a un amore come dono di sé, non solo come una delle possibilità, ma dell’unica via verso una vita pienamente realizzata. È profezia solo se manifesta al mondo questa verità esistenzialmente vissuta. Sappiamo che non necessariamente è così scontato, anche perché donare amore gratuito richiede andare oltre una prospettiva emotiva della vita, richiede un continuo autotrascendimento nell’incontro con l’altro, un perdere se stessi per ritrovare se stessi.
È lo stesso papa Francesco a sollecitarci: «dobbiamo domandarci ancora, [Gesù] è davvero il primo e l’unico amore, come ci siamo prefissi quando abbiamo professato i nostri voti? Soltanto se è tale, possiamo e dobbiamo amare nella verità e nella misericordia ogni persona che incontriamo sul nostro cammino, perché avremo appreso da Lui che cos’è l’amore e come amare: sapremo amare perché avremo il suo stesso cuore» (Lettera apostolica, n. 2).
Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l’unico Mistero dell’Alleanza di Dio con il suo popolo. Quando non si ha stima del matrimonio, non può esistere neppure la verginità consacrata […]
Dice infatti assai giustamente san Giovanni Crisostomo: «Chi condanna il matrimonio priva anche la verginità della gloria: chi invece lo loda, rende la verginità più ammirabile, e splendente (San Giovanni Crisostomo, «La Verginità», X: PG 48,540) […].
Nella verginità l’uomo è in attesa, anche corporalmente, delle nozze escatologiche di Cristo con la Chiesa, donandosi integralmente alla Chiesa nella speranza che Cristo si doni a questa nella piena verità della vita eterna. La persona vergine anticipa così nella sua carne il mondo nuovo della risurrezione futura (cfr. Mt 22,30).
In forza di questa testimonianza, la verginità tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento […].
In questo senso la vita consacrata è profetica nei confronti del matrimonio.
Solo nella vocazione vissuta come dono di sé sta la possibilità della perseveranza e, quindi, del ‘per sempre’ che la relazione d’amore comporta. La crisi della vocazione religiosa e del matrimonio hanno una radice unica: l’eliminazione di quel ‘per sempre’ che l’amore autentico porta con sé anche dentro situazioni in cui la gratificazione è assente. Per questo la profezia della vita consacrata non può essere separata da quel ‘per sempre’. Cito ancora la Familiaris Consortio al n. 16:
Da quanto detto emerge in modo chiaro quale sia la dimensione profetica che la vita consacrata è chiamata a rendere presente nella Chiesa.
Papa Francesco: «Mi attendo che ‘svegliate il mondo’, perché la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia. Come ho detto ai Superiori Generali “La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico». È questa la priorità che adesso è richiesta: «essere profeti che testimoniano come Gesù ha vissuto su questa terra … Mai un religioso deve rinunciare alla profezia” (29 novembre 2013)» (Lettera apostolica, n. II, 2). Come abbiamo visto, essa consiste, prima che in servizi particolari, nella testimonianza della radicalità stessa dell’amore vissuto nel servizio vissuto, fosse anche il più umile e nascosto. È per questo che, se i molteplici servizi di carità che la vita consacrata attua nella Chiesa non trasmettono questa radicalità evangelica, si perde la sua carica profetica e la vita consacrata stessa perde la sua attrattività.
Alcuni risvolti nella vita quotidiana di quanto sopra esposto
1. In ordine alla profezia di un amore vero, carico di creatività e generatività, occorre forse fare riferimento a quel “guardate come si amano” che da sempre ha stimolato gli interrogativi più profondi sulla vita consacrata e sulla vita cristiana in genere. Non c’è alcuna profezia possibile se non ci si vuole veramente bene dentro le case religiose. Resta, però, sempre una meta a cui dobbiamo tendere, mai acquisita una volta per sempre.
Siamo nel Giubileo della misericordia. La prima misericordia è verso di noi stessi: senza di essa non è possibile una serenità fondamentale nel vivere dentro i limiti propri, le proprie povertà e il proprio peccato. Se non impariamo ad amarci nel Signore, non sapremo amare liberamente nel Signore.
Che non avvenga che predichiamo la misericordia verso gli altri e non sappiamo viverla verso i confratelli e le sorelle della comunità o dell’Istituto religioso. Diceva Voltaire: “I monaci si mettono insieme senza conoscersi”, ed è proprio vero, perché noi ci mettiamo insieme anche se non ci conosciamo e cerchiamo di amarci anche se non ci conosciamo. Continuava Voltaire: “Vivono insieme senza amarsi”, e questo non dovrebbe mai essere vero; a fatica, con le contraddizioni e le tensioni che ogni relazione comporta, ma dovremmo poter dire che ci amiamo: ci siamo amati e ci amiamo. E terminava Voltaire: “Muoiono insieme senza rimpiangersi” il che vuol dire non aver stabilito alcuna relazione significativa tra di noi e anche questo non dovrebbe mai essere.
2. Profezia e generatività nella chiesa locale: è la primarietà dell’amore in Cristo che genera attraverso la donazione gratuita di colui che risponde alla sua chiamata. Vita consacrata claustrale e vita consacrata di vita attiva ovviamente si differenziano per il tipo di presenza attiva nel mondo, ma si completano a vicenda nella qualità profetica: la prima rimanda più direttamente alla primarietà dell’amore di Cristo; da qui la maggior difficoltà dei nostri contemporanei a comprenderla e a vederla quasi come una vita sprecata e non utile di fronte ai molti bisogni del mondo. Senza la radicalità di un amore per Cristo che ci ispira, dobbiamo toglierci qualsiasi illusione di essere portatori di profezia dentro questo mondo. Di questo parla la vita claustrale [vogliamo qui ricordare, uniti a noi nella preghiera, le nostre sorelle e i nostri fratelli claustrali]
Dobbiamo ribadirlo: la profezia della vita consacrata non sta nel fare, ma nell’amore che ispira il fare e il modo di fare. Il fare che connota la vita consacrata attiva non è in sé diverso da quello delle professioni laicali che assumono quella stessa attività (scuola, sanità …). Ciò che deve distinguere la vita consacrata è nel motivo che porta a un modo diverso del fare e di stare in quel fare.
Possibile eterogenesi dei fini anche nella vita consacrata, come in ogni altro ambito della vita: una eterogenesi che può riguardare anche le strutture di cui la vita consacrata si serve per le proprie attività: nate per rispondere profeticamente a necessità che genericamente possiamo chiamare caritative, possono rischiare di diventare legami a un passato vuoto di profezia: “strutture che ci danno una falsa protezione” (EG 49), reliquie da custodire che assorbono tutte le energie rimaste.
4. La qualità profetica della vita consacrata non sta nella rivendicazione di ruoli ecclesiali particolari, meno che meno se questi vogliono essere di natura clericale (c’è già troppo clericalismo in giro), senza negare che essi possano esserci, ma sta invece nel servizio pronto in quei ruoli che la comunità richiede: è da queste necessità che sono nati gli Istituti di vita attiva. Non la visibilità (che non è di principio rifiutata), ma l’effettività del servizio utile alla comunità e alla Chiesa locale, questo anima la profezia.
Papa Francesco ricorda: «La speranza di cui parliamo non si fonda sui numeri o sulle opere, ma su Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia (cfr 2 Tm 1,12) e per il quale «nulla è impossibile» (Lc 1,37). È questa la speranza che non delude e che permetterà alla vita consacrata di continuare a scrivere una grande storia nel futuro, al quale dobbiamo tenere rivolto lo sguardo, coscienti che è verso di esso che ci spinge lo Spirito Santo per continuare a fare con noi grandi cose» (Lettera apostolica, n. 3).
5. Non ci può essere qualità profetica se non c’è l’adempimento di ogni giustizia, anche economico-fiscale, dentro e fuori dal convento, anche nei confronti dello Stato. La carità va oltre la giustizia, ma non la nega mai. Non possiamo rivendicare privilegi in funzione di una presunta o reale dimensione profetica della nostra esistenza nella società. Non vogliamo privilegi, ma riconoscimento dell’effettivo beneficio sociale che il servizio reso comporta sicuramente sì.
6. Concludendo: non c’è alcuna dimensione profetica della vita in senso cristiano se la vita non è in grado di mostrare e di richiamare a ciò che è essenziale, e quindi liberante, nel contesto della moltiplicazione degli idoli che la società attuale va proponendo. Gli stessi tre voti di povertà, castità e obbedienza, che caratterizzano la vita consacrata, sono profetici in quanto strada di libertà dal denaro, dal sesso e dal potere (i tre grandi idoli che da sempre hanno tentato l’uomo e che danno la falsa sicurezza di autosufficienza).
I tre voti, vissuti in pienezza e con gioia, e cioè come pieno affidamento della vita a Dio, sono in grado di mostrare ancora oggi la qualità profetica della vita consacrata, cioè dove sta la vera felicità: sono profezia di futuro, profezia di libertà, profezia del Regno. Di questa profezia ha bisogno la Chiesa e di questo la Chiesa è grata a coloro che con la loro consacrazione la rendono presente.