Il torrido deserto messicano come le gelide rotte balcaniche. L’America centrale come l’Europa meridionale. Le frontiere di Nicaragua, Messico e Stati Uniti come i muri eretti nell’Europa centrale. I “coyote” come gli scafisti del Mediterraneo. Sarà Papa Francesco ad accendere i riflettori su quanto accade nel continente americano tra poche settimane, quando giungerà in Messico e visiterà la città di frontiera con il Texas, Ciudad Juárez.
Migliaia di profughi in mano ai “coyote”. In un recente documento le Caritas e la Pastorale sociale del Messico e del Centroamerica hanno denunciato con forza il flagello della tratta di persone, definito “crimine contro l’umanità”: “Bande di trafficanti, conosciuti come coyote, oltre che sfruttare economicamente le persone che sono state spinte a migrare, spesso assaltano i migranti, oppure li abbandonano, lasciandoli esposti ad altri pericoli”. Negli ultimi quindici anni, si stima che siano state trovate morte 5.513 persone lungo i 3.145 km di frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti. Almeno 80mila, secondo la Caritas, i minori non accompagnati. Ma occorre sfatare il mito che siano soprattutto i messicani a voler attraversare il confine. Sempre più spesso i disperati giungono da Honduras, Guatemala, El Salvador… Paesi poverissimi, ad altissimo tasso di violenza. Anzi, sempre più spesso, i messicani si trovano ad essere “alleati” dei vicini gringos. È curioso scoprire che il Messico ha espulso più centroamericani degli Stati Uniti (almeno 118mila persone nei primi nove mesi del 2015). Ed è di qualche giorno fa, ad esempio, la denuncia del Centro diritti umani Fray Matías de Córdova, relativa al centro di detenzione di migranti di Tapachula, nel Chiapas, ai confini con il Guatemala. In un comunicato si parla di “detenzione indefinita e di costante violazione di diritti” per color che vi sono rinchiusi, “sotto lo sguardo e la tutela di funzionari statunitensi”. Tutto questo mentre gli Usa hanno comunque inasprito le politiche di espulsione di centroamericani, anche di donne e bambini, provocando di recente anche la reazione della Conferenza episcopale statunitense.
Tra Usa e Messico un patto per “tappare” le frontiere. “In effetti – spiega al Sir padre Gioacchino Campese, missionario scalabriniano attualmente docente presso il Simi (Scalabrini International Migration Institute) – si deve ormai parlare di due frontiere sud, quella tra Usa e Messico e quella tra Messico e Guatemala: il Messico è diventato il principale alleato degli Stati Uniti nella politica migratoria”. Padre Campese conosce bene la materia, essendo stato a lungo missionario in Messico, a Tijuana, ai confini con la California. “Siamo stati noi, ancora negli anni Novanta, a cominciare a mettere le croci con i nomi dei migranti morti al confine con gli Usa, per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo dramma. Purtroppo il Messico vive un periodo molto difficile, a farla da padroni sono i trafficanti di esseri umani e di droga, la corruzione è elevatissima. Ed è giusto prendersela con i coyote, ma questi si inseriscono nel vuoto della politica, visto che gli Stati sono incapaci di aprire corridoi umanitari”.
Il tragico gioco dell’oca dei cubani. Ad una situazione drammatica si è aggiunto il gigantesco esodo dei cubani. Perché proprio ora? Il motivo è presto detto: i nuovi rapporti tra Usa e Cuba non hanno finora coinvolto la cosiddetta “ley da ajuste cubano”, attraverso la quale gli esuli che toccano il suolo statunitense ottengono il visto e la residenza. Ma molti pensano che tale provvedimento abbia i mesi contati. Perciò migliaia di cubani si sono messi in viaggio per gli agognati States. Ma non per la tradizionale via marittima, pattugliata dalla Marina statunitense. La loro prima tappa è stato l’Ecuador, l’unico Paese che (fino a dicembre) permetteva ai cubani di entrare nei loro confini senza che avessero il visto. Da qui per loro è iniziata una lunga marcia a piedi, un tragico, lunghissimo e pericolossimo gioco dell’oca per arrivare negli Usa attraverso la Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua, El Salvador o Honduras, Guatemala e Messico. Nei primi 9 mesi del 2015 27.296 cubani sono arrivati negli Stati Uniti (più 78% rispetto al 2014). Ma poi il meccanismo si è inceppato. Per una notevole parte di loro – circa 8mila – la marcia, a fine 2015, si è fermata alla frontiera tra Costa Rica e Nicaragua. Quest’ultimo paese, vicino al governo cubano di Raúl Castro, ha impedito il passaggio dei profughi. Un canale si è riaperto nelle scorse settimane, attraverso l’attivazione di un ponte aereo con l’El Salvador, che sta permettendo a numerosi migranti di continuare il viaggio. Ma l’esodo di preannuncia comunque lungo e ricco di pericoli, visto che queste persone, ormai senza soldi, sono spesso in mano aicoyote. In Costa Rica, dove c’è stata una grande mobilitazione per accogliere i cubani, grazie anche alla locale Caritas, la situazione resta pesante. Secondo le stime della stessa Caritas, sono ancora 40mila i cubani presenti in Ecuador; migliaia poi, una volta superato lo scoglio del Nicaragua, vagano per il Messico. Monsignor Guillermo Ortiz Mondragón, vescovo de Cuautitlán e responsabile della Mobilità umana della Pastorale sociale messicana, ha spiegato che la Chiesa è in contatto con le autorità per aiutare i migranti cubani, “non per sostituirci ai trafficanti, ma per riconoscere il diritto delle persone a migrare, rispettando le leggi. Faremo tutto quello che è possibile”.
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