Due adolescenti, una donna giudice e un avvocato: sono i protagonisti della vicenda che ha portato la Corte costituzionale dello Zimbabwe a decidere, lo scorso 20 gennaio, di dichiarare illegali i matrimoni di minorenni, portando l’età minima per sposarsi a 18 anni. A dare l’annuncio è stata Vernanda Zyiambi, magistrato, leggendo il verdetto unanime con cui lei e i suoi colleghi hanno deciso che la norma, già contenuta nella costituzione del 2013, non prevede eccezioni nemmeno per i matrimoni non registrati dallo Stato, o celebrati con rito tradizionale. Pratiche di cui, nonostante le disposizioni della carta fondamentale, facevano ancora le spese soprattutto bambine, costrette a prendere marito anche prima dei 16 anni previsti come limite da una norma precedente. Non avevano nemmeno raggiunto quest’età, ad esempio, Loveness Mudzuru e Ruvimbo Tsopodzi, due ragazze oggi ventenni, che con l’appoggio dell’avvocato e attivista d’opposizione Tendai Biti, hanno portato i loro casi davanti alla suprema corte.
Fattore povertà. Storie simili, comprese le violenze fisiche e psicologiche che hanno portato Ruvimbo a fuggire dal marito che le era stato imposto e a rifugiarsi di nuovo presso la sua famiglia di origine, sono comuni a molte adolescenti dello Zimbabwe: secondo un’indagine nazionale, nel 2014 il 31% delle minori nel Paese era vittima di un matrimonio precoce; cifra che scendeva ad un comunque elevatissimo 24% solo prendendo in considerazione anche le ragazze diciannovenni. Buona parte di loro arrivava dalle aree più economicamente arretrate del Paese, dove le motivazioni economiche influenzano sia i genitori delle future spose sia gli aspiranti mariti. In questo quadro, ha spiegato proprio Tendai Biti in un articolo comparso pochi giorni dopo il verdetto sulla testata locale “The Standard”, “le donne sono spettatori innocenti, semplici oggetti nel processo di sviluppo: spesso lavorano duramente nei campi, con scarsi risultati, oltre ad essere caricate della responsabilità del matrimonio, del dare la vita e dell’essere madri”. A sottolineare come un simile stato di cose sia in realtà deleterio per la stessa economia e per l’avanzamento del Paese, hanno pensato invece i giudici costituzionali: “Anche se i matrimoni infantili derivano spesso dalla povertà e dalla debolezza – si legge infatti nelle motivazioni della sentenza – non fanno altro che rafforzare queste nozioni (…) frenando lo sviluppo fisico, mentale e intellettuale delle bambine e facendone crescere l’isolamento”. L’esperienza, aggiungono poi i magistrati “dimostra che i matrimoni infantili sono uno strumento di oppressione che rende subordinata non solo la donna, ma la sua famiglia: non solo perpetuano un ciclo intergenerazionale di povertà e mancanza di opportunità, ma rinforzano la natura subordinata delle comunità” da cui le bambine provengono.
Campagne internazionali. Non è solo allo Zimbabwe che queste ultime considerazioni potrebbero applicarsi: secondo il Comitato africano di esperti sui diritti e il benessere del bambino anche in Guinea Bissau, Mauritania, Mali, Nigeria, Uganda, Burkina Faso, Etiopia, Niger e Ciad le dimensioni del fenomeno destano allarme. Considerando tutta l’Africa subsahariana, in più, i dati mostrano che ne sono vittime quattro giovani e giovanissime su dieci. Anche per questo i responsabili di Veritas, una delle organizzazioni non governative locali che hanno sostenuto il ricorso di Loveness e Ruvimbo, hanno accolto la sentenza parlando di “una decisione progressista (…) che sarà citata nella giurisprudenza di altri Paesi”. Proprio quello di promuovere strumenti legislativi contro i matrimoni precoci è uno degli obiettivi della campagna lanciata dall’Unione Africana (Ua) a maggio del 2014 (e recentemente prolungata fino a tutto il 2017), che punta anche a rafforzare le realtà locali impegnate in quest’ambito. Come quelle riunite dallo slogan “Child, not brides”, “bambine, non spose”: sono oltre 550 di cui molte nel continente africano. Al loro fianco si è schierato anche l’arcivescovo emerito anglicanoDesmond Tutu: “È sotto i nostri occhi che queste bambine perdono la loro infanzia, l’opportunità di studiare, di diventare ciò che vogliono – ha ricordato di recente il prelato sudafricano, già premiato col Nobel per il suo impegno contro l’apartheid – ed è nostra responsabilità assicurarci che tutto ciò finisca”.