Un tripudio di colori, musiche, danze e omaggi floreali ha salutato l’arrivo di Papa Francesco a Morelia, quarta tappa del suo viaggio in Messico nello stato di Michoacàn. È questa una metropoli urbana che prende il nome da José María Morelos, tra i principali eroi della guerra d’indipendenza del Messico, che registra la maggiore popolazione e superficie dello Stato.
Morelia, però, è tristemente nota anche come agglomerato urbano dove si concentra un alto tasso di violenza e narcotraffico. Tanto che Papa Francesco ha voluto offrire una propria personale carezza a questo territorio ferito creando cardinale l’arcivescovo Suarez Inda nell’ultimo Concistoro di febbraio.
Ed è proprio il porporato ad accogliere il Pontefice all’aeroporto General Francisco J. Mújica e a condurlo – per 20 km in elicottero e per gli ultimi 9 in papamobile – nello StadioVenustiano Carranza, dove ad attenderlo ci sono oltre 20mila sacerdoti, religiose, religiosi, consacrati e seminaristi con cui il Pontefice celebra la Messa. Alcuni sono sistemati nel vasto prato o sugli spalti dall’alba, altri rimangono in piedi con abiti tipici ingombranti e variopinti. Un modo per avvalorare le proprie antiche radici.
Dopo il tour in jeep scoperta, tra canti e cori da stadio, Francesco sale sul grande palco in legno bianco, dove campeggia la ‘Madonna della Solitudine’ a cui rende omaggio, e richiama tutti al silenzio e alla preghiera per l’inizio della funzione. Prima, però, chiede di ricordare nella preghiera mons. Carlos Suárez Cázares, arcivescovo emerito di Morelia, “che il Signore ha chiamato a sé ieri sera a 96 anni di età, affinché lo premi per tutto il lavoro che ha fatto in mezzo al suo popolo”.
Nell’omelia poi, ribadendo l’invito alla preghiera che è “scuola di vita” e alla evangelizzazione che “non è una gloria ma una necessità”, Francesco mette in guardia da una pericolosa tentazione per tutti i religiosi: la rassegnazione, “una delle armi preferite del demonio”, ovvero il dire: “E che cosa posso fare? La vita è così…” e restare inermi davanti alle sfide che si pongono sul cammino di ogni consacrato.
Nella preghiera del Padre Nostro “noi ci rivolgiamo tutti i giorni pregando: non lasciarci cadere in tentazione”, dice il Papa. Ma “quale può essere una delle tentazioni che ci potrebbe assalire? Quale può essere una delle tentazioni che sorge non solo dal contemplare la realtà ma nel viverla? Che tentazione – sottolinea Bergoglio – ci può venire da ambienti dominati molte volte dalla violenza, dalla corruzione, dal traffico di droghe, dal disprezzo per la dignità della persona, dall’indifferenza davanti alla sofferenza e alla precarietà?”. “Che tentazione potremmo avere sempre nuovamente di fronte a questa realtà che sembra essere diventato un sistema inamovibile?”
La tentazione della rassegnazione, appunto, che – afferma il Santo Padre – “ci paralizza e ci impedisce non solo di camminare, ma anche di fare la strada”; una rassegnazione “che non soltanto ci spaventa, ma che ci trincera nelle nostre ‘sacrestie’ e apparenti sicurezze”. Una rassegnazione – aggiunge – “che non soltanto ci impedisce di annunciare, ma che ci impedisce di lodare”, e che “non solo ci impedisce di progettare, ma che ci impedisce di rischiare e di trasformare le cose”.
Per questo, nel Padre Nostro, dobbiamo insistetere: “Non lasciarci cadere nella tentazione”. E nei momenti in cui essa prende il sopravvento “ci fa bene fare appello alla nostra memoria”, suggerisce il Papa: “Quanto ci aiuta osservare il ‘legno’ con cui siamo stati fatti. Non tutto ha avuto inizio con noi, non tutto terminerà con noi; per questo, quanto bene ci fa recuperare la storia che ci ha portato fin qui”.
Anche, ci fa bene ricordare che Dio “ci ha invitato a partecipare alla Sua vita, alla vita divina”; perciò “guai a noi se non la condividiamo, guai a noi se non siamo testimoni di quello che abbiamo visto e udito, guai a noi”, ammonisce il Pontefice. “Non siamo né vogliamo essere dei funzionari del divino, non siamo né desideriamo mai essere impiegati di Dio, perché siamo invitati a partecipare alla sua vita, siamo invitati a introdurci nel suo cuore, un cuore che prega e vive dicendo: Padre nostro”.
“Cos’è la missione se non dire con la nostra vita: Padre nostro?”. “A questo Padre nostro noi ci rivolgiamo tutti i giorni pregando”. E in questa orazione, in questo fare memoria – dice Bergoglio – non possiamo tralasciare “qualcuno che amò tanto questo luogo da farsi figlio di questa terra”, Vasco Vásquez de Quiroga, primo vescovo di Michoacán, conosciuto anche come “Tata Vasco” o come “lo spagnolo che si fece indio”.
“Con voi desidero fare memoria di questo evangelizzatore”, dice il Pontefice, che ringrazia il card. Suarez Inda per avergli dato la possibilità di celebrare l’Eucarestia con il calice del missionario. Con lui il Papa rammenta la realtà vissuta dagli indios Purhépechas descritti da Vasco come “venduti, vessati e vagabondi per i mercati a raccogliere i rifiuti gettati a terra”.
“Lungi dal condurlo alla tentazione dell’accidia e della rassegnazione”, questa situazione “mosse la sua fede, mosse la sua vita, mosse la sua compassione”, spingendolo a realizzare diverse iniziative che fossero di “respiro” di fronte a tale realtà “tanto paralizzante e ingiusta”. “Il dolore della sofferenza dei suoi fratelli divenne preghiera e la preghiera si fece risposta concreta”, sottolinea Papa Francesco. Fu questo a fargli guadagnare tra gli indios il nome di “Tata Vasco”, che in lingua purépechas significa “papà”.
“Padre, papà, abbà…” è infatti la parola chiave, ribadisce il Pontefice. Una parola che non deve avere “il retrogusto della routine e della ripetizione, ma al contrario il sapore della esperienza, della autenticità….”. “Padre, papà, abbà…” è dunque la preghiera, “l’espressione alla quale Gesù ci ha invitati” per non lasciarci cadere nella tentazione della rassegnazione, “della perdita della memoria”, nella tentazione – conclude Francesco – “di dimenticarci dei nostri predecessori che ci hanno insegnato con la loro vita a dire: Padre Nostro”.