“Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. Un libero racconto e immagini di verità che ci raccontano quello che succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario”: con queste parole Meryl Streep, presidente della giuria del Festival di Berlino, ha motivato la scelta di assegnare a “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi l’Orso d’oro, il premio più importante del Festival di Berlino. Rosi, dunque, già vincitore con “Sacro Gra” del Leone d’oro al Festival di Venezia 2013, bissa un successo nient’affatto scontato. Diciamo non scontato perché i due film del regista italiano sono due documentari, un genere fino a qualche anno fa non considerato nelle vetrine dei Festival. Oggi, invece, forse anche grazie a queste due opere di Rosi
si torna a scoprire la forza e la poesia del genere documentario,
capace di raccontare con un linguaggio puro perché non filtrato da narrazione finzionale la nostra contemporaneità.
Dopo quattro anni dalla vittoria dei fratelli Taviani con “Cesare deve morire” (guarda caso, un altro documentario), un nuovo film italiano trionfa a Berlino e lo fa con una pellicola urgentemente attuale. “Fuocoammare” racconta, infatti, la vita sull’isola di Lampedusa, ben nota per le tragiche vicende legate ai flussi dei migrati.
Un tema assolutamente attuale, di cui si parla in Europa come in America, a cui si cercano soluzioni e che molto spesso causa dibattiti accesi fra posizioni distanti.
Rosi ha impiegato un intero anno per riprendere i flussi migratori verso le coste italiane: a Lampedusa si è fermato un anno intero raccontando la disperazione di famiglie in cerca di un futuro e la difficoltà degli isolani. Uno dei “protagonisti” della pellicola è il medico che si occupa dei migranti sull’isola, Pietro Bartolo, a cui è affidato il messaggio forse più forte della pellicola: “Noi siamo un popolo di pescatori e i pescatori accettano tutto quello che viene dal mare. Quindi dobbiamo imparare a essere più pescatori anche noi”.
Il film, nella forza delle sue immagini, che non hanno bisogno di parole o di un intreccio narrativo, lancia un messaggio di solidarietà e di apertura.
Non a caso le parole, a caldo, del regista sono state queste: “Il mio pensiero più profondo va a tutti coloro che non sono mai arrivati a Lampedusa, a coloro che sono morti. Dedico questo lavoro ai lampedusani che mi hanno accolto e hanno accolto le persone che arrivavano”. Ed ha aggiunto: “Per la prima volta l’Europa sta discutendo seriamente alcune regole da fissare, io non sono contento di ciò che stanno decidendo. Le barriere non hanno mai funzionato, specialmente quelle mentali. Spero che questo film aiuti ad abbattere queste barriere”.