Zenit di Mons. Vincenzo Bertolone
“Perfino l’eternità, un tempo, durava di più”. Non fosse che il bisogno di audience rende praticamente vitale la polemica, l’aforisma del poeta polacco Stanislaw Jerzy Lec sarebbe bastato, senza troppo rumore, a dare risposta alle ansie che da una settimana scuotono una Capitale, milioni di tifosi e, a giudicare dal rilievo dedicato alla vicenda dai mezzi di informazione, un Paese intero.
Francesco Totti, simbolo calcistico di Roma e – lato sensu – dell’Italia tutta, ha annunciato di non essere tanto d’accordo col suo allenatore, che a cagione dei 40 anni che il Capitano romanista s’appresta a compiere vorrebbe tenerlo un po’ ai margini della squadra mentre lui, al contrario, volentieri e caparbiamente sarebbe pronto a giocare ancora, almeno per un po’.
A parte gli aspetti strettamente ludici e tecnici, che hanno già appassionatamente coinvolto i 60 milioni di commissari tecnici che popolano il Belpaese, la vicenda è seria, e riguarda tutti. Perché dalle parole di Totti, se rilette attentamente, emerge la paura dell’uomo contemporaneo, il timore dell’accantonamento, l’ansia da abbandono, che preludono la paura della fine perché ci si sente inutili.
Oggi, più di ieri, uscire di scena è diverso da smettere di lavorare. E se la pensione, in fondo, è quasi inseguita (specie da quando viene continuamente spostata in avanti), la pace dai riflettori è fonte d’inquietudine: la fine di ciò che amiamo, come ogni perdita, ci angoscia, perché è un frammento della perdita del tutto, a volta della vita.
Per questo il tempo, “quel vile avversario”, come lo definiva Paul Valéry, è tanto avversato quanto bramato: incute timore per il suo fluire inesorabile, è studiato e indagato per ricercarne le chiavi e possederlo.
Eppure, basterebbe considerarlo per ciò che semplicemente è: la realtà decisiva per definire il nostro essere materiale e interiore. È il nocciolo dell’esistenza, è sempre in noi, qualcosa di noi. È il motivo per cui, probabilmente, facciamo di tutto per ignorarlo. Il ticchettio di un orologio ci toglie il sonno mentre, in realtà, dovrebbe toglierci di dosso la superficialità, le meschinità.
È questione di scelta: il tempo galoppa, la vita ci sfugge tra le mani. Ma può sfuggire come sabbia oppure come una semente. Si possono, infatti, lasciar scorrere ore e giorni come granelli di sabbia, d’una clessidra, espressione di un vuoto, di un nonsenso, di rassegnazione. Al contrario, si possono intendere quegli istanti come semi che si gettano nel terreno della storia: tanti saranno soffocati da sassi e rovi, ma altri attecchiranno, cresceranno e daranno frutti.
Ognuno di noi, in fondo, è più quello che appare, che non la parte invisibile agli occhi. Che però è quella che sopravvive. E ciò, forse, più che alle polemiche, dovrebbe farci pensare alle parole di Cristo: “Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà quando non ve l’aspettate” (Lc 12,40). È solo così che si può essere campioni e far goal sui campi dell’eternità.