Dopo l’approvazione al Senato del maxiemendamento che regola le unioni civili tra persone dello stesso sesso, abbiamo chiesto un approfondimento adAlberto Gambino, ordinario di diritto privato nell’Università Europea di Roma.
È stato introdotto un nuovo istituto giuridico nel diritto di famiglia?
Il matrimonio è un rapporto di coppia dove le regole sono sottratte alla volontà dei suoi titolari per essere affidate al legislatore: una vicenda normativa di carattere eccezionale che si giustifica perché il matrimonio è la struttura privilegiata di accoglienza della prole. Nel maximendamento approvato si rilevano molteplici richiami normativi che sottraggono le “regole” dell’unione civile alla volontà delle parti.Si tratta, dunque, di un nuovo istituto giuridico che certamente si colloca nel diritto di famiglia, poiché attinge direttamente o per analogia alla disciplina del codice civile relativa ai rapporti coniugali.
Come si esplicita e con quali conseguenze?
Si introduce nell’ordinamento un istituto elaborato ad hoc per le coppie formate da persone dello stesso sesso, che solo nominalmente non si chiama matrimonio, ma disciplina effetti che sono per gran parte gli stessi. L’istituto matrimoniale non sta infatti solo nel suo nome, ma soprattutto nelle sue caratteristiche strutturali. Gli scenari possibili sono una dichiarazione di incostituzionalità della Consulta o, ancor prima, un rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica per manifesta incostituzionalità; oppure, ove il testo superi queste due verifiche, la totale equiparazione al matrimonio, adozioni comprese.
Quali sono le parti del maxiemendamento che sollevano i maggiori dubbi?
La dichiarazione di unione civile alla presenza dell’ufficiale di stato civile e dei testimoni, esattamente come per il matrimonio; gli impedimenti, che sono gli stessi per le nozze; l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione (parole mutuate dall’art. 143 del codice civile sul matrimonio); l’accordo sull’indirizzo della vita familiare e la residenza comune (dall’art. 144); l’estensione della parola “coniuge” anche alle parti dell’unione civile; lo scioglimento automatico in caso di rettifica del sesso; il cognome comune.Un insieme di norme che creano un istituto sostanzialmente paramatrimoniale.
Rispetto alla formula classica del codice civile è sparito l’obbligo alla fedeltà, che valenza ha nel nostro ordinamento?
La diversità di sesso dei coniugi appartiene alla struttura fondamentale del matrimonio, in forza del legame tra procreazione e matrimonio. Poiché l’esercizio della sessualità tra l’uomo e la donna è potenzialmente idoneo alla procreazione, solo in questo caso l’aspetto più intimo della vita di coppia assume una rilevanza per l’ordinamento e consente l’intromissione in quella che è senza dubbio una delle forme più private di esercizio della libertà personale. Forse proprio questo ragionamento è dietro l’eliminazione dell’obbligo di fedeltà e, dunque, dell’obbligo di esclusività nell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
È stata espunta la stepchild adoption, ma il comma 20 sembra lasciare ampia discrezionalità ai giudici per le adozioni.
Sì, qui si dice che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Con “consentito” si vorrebbe far intendere che anche le decisioni dei giudici (che consentono o meno le adozioni) entrano in ciò che “resta fermo”. Gli estensori del maxiemendamento pensavano evidentemente alle Corti d’Appello di Roma e Milano, che hanno “consentito” la stepchild adoption. Si tratta però di due decisioni che operano una forzatura del dato normativo vigente. In realtà il nostro legislatore ha inteso garantire l’interesse del minore a crescere nel rapporto con due figure genitoriali distinte e complementari: il padre e la madre.
Quali sono le prospettive giurisprudenziali? Ci sono margini per interventi sostanziali della magistratura italiana o europea?
Le Corti sovranazionali, in particolare la Corte di Strasburgo, hanno fatto propria da tempo l’idea di un divieto assoluto di discriminazione tra l’istituzione matrimoniale e l’istituzione prevista ad hoc per i rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso. Il sistema non sembra tollerare la presenza simultanea di forme istituzionali distinte: è come se l’istituzione apparentemente “più forte”, cioè quella matrimoniale, finisse fatalmente per esercitare un potere di attrazione irresistibile. Allo stato attuale tuttavia, non è stato riconosciuto dalle Corti alcun obbligo di diritto europeo di istituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Si tratta, si dice, di una scelta rimessa al cosiddetto “margine di apprezzamento” del singolo Stato. Ma le stesse Corti ammoniscono:una volta che in un ordinamento sia stata accolta la logica della “istituzionalizzazione” delle unioni civili, non è più ragionevole continuare a discriminare tra due istituti.Appena 5 anni fa però, la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che il matrimonio, quale unione stabile tra uomo e donna, caratterizzata da una reciproca ed esclusiva dedizione sessuale, rappresenta l’unica possibile forma istituzionale di riconoscimento giuridico del rapporto di coppia proprio perché naturalmente preordinato alla procreazione.