GROTTAMMARE – Alessandro Sortino, giornalista e direttore creativo di TV2000, ma tutti continuano a ricordargli che era una delle Iene sebbene da molto tempo non vesta più quei panni, ha parlato di misericordia presso la chiesa “Madonna della Speranza” di Grottammare. Ha introdotto la sua riflessione proprio dall’esperienza delle Iene, ricordando che uno dei motivi per cui ha scelto di fare il suo lavoro è nato dalla lettura di Renè Girard sul concetto di capro espiatorio. Ha presentato la società oggi con un’immagine: quella di un castello dove si sta bene, si fa festa e si banchetta, e fuori coloro che non hanno accesso a questo banchetto. Ma i partecipanti al ricco banchetto non sanno che a qualcuno di loro a rotazione toccherà essere buttato fuori in pasto a quelli che stanno fuori, capro espiatorio appunto, ma anche quella cultura dello scarto di cui parla papa Francesco.

Ecco il testo della sua riflessione:

“Penso a questo: al “rifiuto“.
Noi gettiamo ciò che non ci serve e lo chiamiamo “rifiuto“, ma l’involucro delle patatine continua ad esistere, il nostro “rifiuto” non gli toglie esistenza. Allora lo chiamiamo “immondizia” massa di cose immonde, impure, ma non per questo cessano di esistere. Queste parole che usiamo servono a definire quella parte dell’oggetto che non è funzionale all’uso del soggetto, ma ciò non toglie loro esistenza. I rifiuti, le emissioni, gli scarti, sono una massa di materia che oggi minaccia la nostra esistenza. Ciò che facciamo di male è pensare che con un verbo-nome-giudizio togliamo esistenza alla parte che avanza, al resto. Perché pensiamo di essere noi a definire ciò che esista o meno in conformità del giudizio. Eppure il reale esiste, fuori da noi, anzi è un tessuto, di cui noi siamo parte.
Tra esseri umani facciamo lo stesso, scartiamo coloro che sono inutili. Ma più sottilmente giudichiamo rifiuto noi stessi nella parte non conforme al modello di utilità. Questo modello è l’idolo. Noi siamo feriti, per il nostro stesso esistere, e via via che viviamo, e decidiamo cioè diminuiamo le possibilità di essere, diventando una persona concreta, sempre meno assomigliamo al modello. Ma noi vogliamo essere l’altro: il nostro corpo è la ferita di non essere l’altro, di non essere conforme. Il nostro cuore è pieno di ferite. E via via noi vivendo ci allontaniamo dall’ “altro astratto”, cioè dall’idolo, cioè dal dio inesistente, tanto più consideriamo rifiuto, cioè rifiutato, ciò che vive, ciò in cui consistiamo. Ma il “rifiuto”, cioè il nostro cuore, continua ad esistere.
Altri terrorizzati dall’essere difformi gettano sui diversi l’anatema e scartandoli, giudicandoli, uccidendoli, credono di aver esorcizzato il dolore. La società umana è fondata sullo scarto, perché è fondata sul giudizio, cioè sulla pretesa di concedere o togliere esistenza a ciò che non è conforme.
Poi arriva Gesù, il Dio concreto, il Dio vivente. Egli è qualcuno, non nessuno, per cui muore e risorge “ciascuno”. Il mistero è che le nostre ferite, sono le sue, esattamente. Lui è Colui che venne rifiutato. La pietra scartata diventata pietra angolare. La Chiesa viva è quel luogo contrario al mondo dove ciascuno viene accolto e nessuno scartato. Dove nessuno costruisce sul paradigma dello scarto il giudizio di utilità o di purezza. Dove ciascuno viene chiamato ad accogliere con pienezza se stesso, senza sacrificare o scartare ciò che ci rende difformi e ci fa soffrire. Attribuire a Dio la nostra esclusione è la tentazione costante, per questo nel Sacramento della riconciliazione noi ci confermiamo interi, amati interi, senza scarti.
Il sacrificio di Cristo inverte il giudizio: chi è scartato (il povero, il piccolo, il sofferente, il peccatore giudicato irrecuperabile) è e sarà beato, precederà il conforme giudicante, colui che ha scambiato Dio con l’idolo sacrificando/scartando/rifiutando, una parte di sé, una parte della società, una parte dell’umanità. Di più: accettando sé interi, si salva il mondo, cioè si partecipa alla ricucitura del tessuto in cui il reale consiste, costantemente strappato dal peccato, cioè dal giudizio, dalla coscienza separata dall’essere.

Nei gruppi il meccanismo è più evidente, c’è una persona che assume il ruolo di modello di comportamento, che incarna l’altro ideale, il suo aspetto, il suo agire diventa normativo, ma ciò che piace di lui (o di lei) la sua conformità, l’adesione totale a una norma astratta. Pensiamo che essere amici, o fidanzati del modello, ci renda finalmente liberi da ogni accusa. Ci sono migliaia di teen movie americani che parlano solo di questo, perché sanno che colgono un aspetto essenziale della nostra identità sociale. Non importa se la norma imposta, se la dittatura del modello, sia volta al male o al bene: si può spingere un ragazzo a drogarsi, per assomigliare agli altri, oppure un altro a sposarsi, si può escludere da un gruppo uno buono, perché è troppo sensibile, o uno cattivo, un peccatore, perché rende impura la società. L’accusatore usa categorie astratte, norme o modelli, perché è un nostro fantasma, cioè non esiste, pure quando assuma le sembianze di una persona reale. Il problema del l’accusa è che essa ci conferma nella certezza della nostra inadeguatezza, e questa conferma ci dà piacere.
Per cui noi ciclicamente ricadiamo nell’orgasmo della conferma dell’essere rifiutati. La ferita originaria di non essere l’altro, viene riaperta, ed in questo dolore noi ci riconosciamo come vivi. Niente è più arduo che rinunciare al piacere di essere schiavi del doppio accusatore. L’essenza di questa ferita è originaria. La coscienza di noi stessi, comporta la coscienza di non essere Dio, ma questa coscienza ci scandalizza, l’altro ci provoca, dunque noi siamo trascinati nella mimesi. E nella mimesi soggiacciamo all’accusa e rifiutiamo ciò che ci rende unici, rifiutiamo ciò che è stato rifiutato dagli altri e ci assoggettiamo all’idolo, la nostra ferita diventa presso di noi occasione di scandalo.
Il sacrificio di colui che è diverso, il capro espiatorio, per espellere l’impurità dal corpo sociale, che siamo molto bravi a riconoscere quando un ragazzo coi calzoni rosa, o un immigrato, o un disabile, viene messo in mezzo, in realtà lo applichiamo a noi stessi, bandendo dal cuore quell’identità ferita oggetto delle accuse del doppio. Cerchiamo cioè di guarire assumendo il veleno che ci ha ammalati…
Ma tornando a noi, se l’altro accusatore ci costringe al ciclo sempre uguale di dolore e piacere, di sacrificio-morte-resurrezione, chi entra in questa contraddizione originaria dell’esistere, mettendosi esattamente al centro della questione, nei suoi aspetti psicologici, esistenziali, sociali, politici e religiosi? Chi è l’altro difensore?
Dev’essere qualcuno di non astratto, di non mimetico, che esista cioè a prescindere delle nostre proiezioni, che conosca il meccanismo mimetico e sacrificale al punto da affrontarlo nella sua vita e denunciarlo nel suo operare, qualcuno che non giudica, ma perdona, qualcuno che separa le unioni fondate sull’altro accusatore e sulle sue vittime e le ricostruisce sul resto: cioè proprio su coloro che sono scartati, che Egli proclama beati.
L’altro difensore è irriducibile nella sua verità perché sottratto al processo mimetico. Egli è il Cristo. Si chiama “pace” il risultato di questa difesa che egli opera, per cui noi siamo difesi dal nostro doppio accusatore, e siamo portati a riconoscerci interi e ad offrire la nostra intera esistenza come occasione di salvezza per il mondo.
Serve solo lasciare che questo amore concreto liberi dal giudizio il nostro cuore.”

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *