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Argentina, 40 anni dal golpe militare che finì nel “terrorismo di Stato”. I vescovi: “Passato da affrontare e sanare”

Maribé Riscica

Quest’anno il ricordo del 40esimo.anniversario del golpe militare che nel 1976 diede inizio in Argentina a una delle dittature più feroci di America Latina, ricorre nella celebrazione del giovedì santo. I vescovi argentini, a conclusione della riunione della Commissione permanente della Conferenza episcopale, hanno diffuso un comunicato nel quale auspicano che “un evento come la rottura dell’ordine costituzionale e dello stato di diritto non abbia a ripetersi mai più né venga dimenticato”. Hanno ricordato inoltre che “il giovedì santo è un giorno di dolore e tradimento ma anche un giorno di manifestazione dell’amore fino in fondo di Gesù Cristo che dà la sua vita per noi” e che “nel suo sangue siamo stati riconciliati”. “Il suo esempio – hanno avvertito i presuli – deve aiutarci a cicatrizzare le nostre ferite nella verità, il pentimento , la riparazione in giustizia e l’anelito di raggiungere misericordia”.  “Come argentini non possiamo smettere di domandarci come si è potuto arrivare al periodo più oscuro della nostra storia” affermano i presuli nella loro dichiarazione. “Le sue conseguenze di scontri, dolore e morte restano ancora e si presentano come un passato che dobbiamo affrontare e sanare”.
I processi portati avanti dalla giustizia argentina contro i militari coinvolti nelle violazioni dei diritti umani rappresentano senza dubbio la volontà della società argentina di sanare questo passato alla luce della verità e dei risultati dell’indagine realizzata a suo tempo dalla Conadep per richiesta del presidente Raul Alfonsin.

Provata l’esistenza di un piano per uccidere e far sparire nel nulla i detenuti ritenuti “terroristi”, cioè l’esistenza di un “sistema” volto alla scomparsa forzata di persone che fu rapidamente definito “terrorismo di Stato”, la società argentina non ebbe dubbi sulla necessità di condannare la repressione illegale.
“L’Argentina attraversava una escalation di violenza che finì nel terrorismo di Stato, protagonista di crimini di diversa natura, tra i quali la tortura, l’omicidio, la scomparsa forzata di persone e il sequestro di bambini” affermano i vescovi nel loro comunicato. “Il ritorno alla democrazia ha segnato l’inizio di un cammino di verità, giustizia e incontro tra tutti che è urgente continuare a percorrere per poter raggiungere la concordia e l’amicizia sociale” concludono.

I tempi dell’oscuramento sono ormai lontani . “Di certo c’è che non sono accaduti più golpe militari, le forze armate hanno perso la loro capacità di controllare la politica e non si sono registrate ulteriori massicce violazioni dei diritti umani” ha affermato recentemente al quotidiano “La Nacion” il sociologo e avvocato costituzionalista Roberto Gargarella. Di certo c’è inoltre che lo stesso capo dell’Esercito tenente generale Martin Balza, nel 1995, rese noto un documento nel quale riconobbe pubblicamente la responsabilità dell’Esercito in quella che loro chiamavano “guerra sporca”, cercando – secondo quanto affermò – di iniziare “un dialogo doloroso sul passato (…) che si agita come un fantasma sulla coscienza collettiva”. La nomina del generale Milani anni dopo – a capo delle Forze armate e per iniziativa del governo kirchnerista – venne ad aprire di nuovo le ferite degli anni di piombo perché Milani era sospettato di attiva adesione al programma della dittatura.

Quali sono quindi oggi le ferite che la Chiesa ci invita a far cicatrizzare? Si potrebbe immaginare che alcune hanno a che vedere con la paura di una parte della società di non avere garanzie – dopo il recente ricambio di governo – sulla continuità dei processi giudiziari che sono ancora in corso nell’ambito del rispetto dei diritti umani, ma il governo del presidente Macri ha già rifiutato tale ipotesi, assicurando che rispetterà pienamente le decisioni della Giustizia. Altre ferite si sono riaperte in occasione della pubblicazione di un’intervista giornalistica fatta all’ex dittatore Jorge Rafael Videla poco prima della sua morte in carcere (nel 2013), nella quale egli giunse a confessare che “dovevano morire 7000 o 8000 persone perché si potesse vincere la guerra contro la sovversione”. Questa dichiarazione fece scattare una grande polemica intorno al numero delle persone effettivamente scomparse durante la dittatura e infastidì quanti sostengono ancora che i “desaparecidos” sono stati, invece, circa 30mila.

Uniti nella ricerca della verità. Importante è che

dal ritorno alla democrazia (1983) in poi, la società argentina si è trovata unita nella ricerca della verità e ha appoggiato l’azione della giustizia.

Dove sono emersi invece scontri e divisioni è stato sul piano della dialettica, nella spiegazione del rapporto tra la violenza e la politica degli anni ’70. Mentre alcuni – perfino coinvolti nella lotta armata di quel decennio – hanno deciso di ripensare criticamente quel rapporto, altri rimangono ancora prigionieri della cosiddetta “Teoria degli angeli e dei demoni…” . Per fortuna, un punto di coincidenza è stata sempre la differenza qualitativa tra terrore statale e violenza di guerriglie, segnata già nel prologo del “Nunca mas” (mai più), l’indagine dal cui titolo emerge – secondo quanto affermato dal ricercatore Carlos Gamerro – “una speranza sul futuro”.

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