Dopo l’ennesima denuncia di maltrattamenti su bambini dell’asilo, le mamme si sono organizzate e hanno iniziato a raccogliere firme per dotare ogni scuola materna di un sistema di videosorveglianza. Scopo dichiarato, cogliere in flagrante insegnanti dalla sberla facile. Due petizioni, informa un noto quotidiano, sono già a quota 24mila adesioni mentre la pagina Facebook che persegue analoga strada ha ampiamente doppiato la cifra. Il progetto, nato dalle legittime preoccupazioni dei genitori, sarebbe rivolto solo a monitorare le giornate dei figli e le riprese servirebbero esclusivamente ad accelerare le indagini in casi sospetti, tanto che il materiale sarebbe visionabile solo da dirigenti scolastici e Forze dell’ordine. Si parla non solo di documentare maltrattamenti veri e propri, ma anche di identificare e evidenziare atti di bullismo. “Un tema che non va banalizzato”, ha detto Antonello Soro, Garante per la privacy. Su questo, diremmo, il consenso è unanime, ma, tolta dalla drammaticità di alcuni eventi specifici, la questione si presta a considerazioni che inevitabilmente hanno a che fare con il nostro senso della privatezza.
Viviamo immersi in un Grande Fratello volontario di cui cogliamo la portata solo quando si cercano attentatori e omicidi.Per esempio, alle telecamere nei luoghi pubblici o per strada siamo talmente abituati che nemmeno le notiamo più. O meglio, ci facciamo caso quando ci viene ricordata la loro esistenza, di solito per episodi spiacevoli: dalla multa perché si è passati col rosso, al tentativo di risalire al ladro della vespa, involata, ironia della sorte, proprio davanti a Palazzo di giustizia. Nel primo caso siamo sempre perfettamente identificabili, nel secondo, ovviamente, il malfattore sarà impossibile da riconoscere. Nei negozi risultano più discrete, ma ormai quasi onnipresenti. Disseminate con cura scrutano dall’alto, grigi pipistrelli panciuti, piccole astronavi appese a testa in giù dalla cui cupoletta centrale non fa capolino un marziano, ma un occhiuto obiettivo girevole che riporta i nostri movimenti sui monitor del circuito interno, in un caleidoscopio di volti e gesti guardati con stupore da chi si sorprende in quella tivù in bianco e nero: “ma sai che da dietro non mi riconoscevo?”.
Dalla villetta al condominio, spopolano i pacchetti sicurezza di videosorveglianza con controllo remoto che riporta su tablet o smartphone quanto ripreso dalle telecamere piazzate in punti strategici della casa. Risultano ampiamente documentati casi di soggetti che non riuscivano a godersi la vacanza, la cena con gli amici o il pomeriggio al parco perché troppo impegnati a fissare insistentemente lo schermo del dispositivo nella trepida attesa di eventuali malintenzionati. Di solito, gli ossessionati sono per lo più di sesso maschile, fanno rapidamente gruppo, indottrinano proseliti e sono sconcertati dall’assenza di un arbitro contro cui inveire.
Ma il desiderio di documentare tutto a mezzo telecamere pone una domanda di fondo: non sarà che poi l’ossessione per il controllo finirà per scappare di mano?Perché, per dire, non controllare l’operato degli impiegati pubblici che il pregiudizio della vulgata vuole fannulloni a spese della collettività? In questo, purtroppo, il sanremese vigile timbratore in slip ha creato un precedente di fama difficile da scalzare. Siamo certi che in poco tempo nascerebbe sui social network un forte movimento populista e telecameraio. E allora perché un datore di lavoro non dovrebbe avere il diritto di verificare, grazie a una telecamera ben piazzata, quanto tempo i dipendenti perdono (e in che modo) davanti al caffè. La fortunata sit com televisiva “camera café” era uno spasso, forse lo sarebbe meno se l’obiettivo fosse rivolto su di noi e sui nostri pettegolezzi da pausa. E infine, la storia insegna che fornito lo strumento e la possibilità poi si sa come vanno a finire le cose: fidarsi è bene ma non fidarsi è sempre meglio. Quante mamme passerebbero le giornate a controllare cosa fa il pupo invocando la moviola dopo lo spintone del compagnuccio?
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