No, caro Saviano. Questa volta non ci hai proprio convinto. Neanche un impegnato giornalista e fine narratore, quale tu sei, può pensare di capovolgere la realtà, edulcorandola a suon di parole suadenti.
La triste scelta dell’eutanasia, narrata nel libro “La casa blu”, di Massimiliano Governi, – da te recensito di recente – difficilmente può essere definita, come suggerisci, “una preghiera e un inno alla vita”. No, essa è e rimane una scelta di morte, un’amara sconfitta umana e sociale, un gesto di capitolazione interiore e, talvolta, un’oscura scelta politico-economica che non teme di strumentalizzare, fino alla sua “terminazione”, la vita umana degradata dalla malattia o considerata ormai inutile.
Non stiamo certo tirando conclusioni sulla responsabilità personale di chi la chiede per sé, non avremmo né il diritto né gli strumenti per farlo. Ci riferiamo piuttosto
all’eventualità dell’avallo sociale (ed eventualmente giuridico) di questa infelice prospettiva, che per altro avrebbe la pretesa di essere la via giusta per poter “morire con dignità”, o per citare ancora le tue parole, “per vivere dignitosamente fino all’ultimo respiro”.
Ma perché, chi accetta di vivere – avvalendosi di tutte le possibili cure del caso – la propria condizione di malattia fino all’ultimo respiro, senza anelare a procurarsi la morte anticipatamente, forse non “muore con dignità”? O forse affrontare la propria malattia fino alla sua conclusione naturale, senza sconti sulle inevitabili angosce e paure connesse, è da persone “di seconda classe”, che hanno rinunciato alla propria dignità umana?
Caro Saviano, osanni il libro “La casa blu”, fino a candidarlo per il Premio Strega, perché, pagina dopo pagina, darebbe al lettore “al termine del viaggio la consapevolezza che quella scelta è l’unica possibile per chi la compie”. No, caro Roberto. Non mettiamo in dubbio la qualità letteraria dell’opera, ma ciò che affermi –in buona fede, ne siamo certi – è un inganno. Perché
quella scelta non è affatto l’unica. Non lo è mai stata, nella storia dell’umanità.
La morte è atto conclusivo della vita, ne fa parte indissolubilmente, e merita anch’essa di poter essere assunta, nei limiti del possibile, dalla consapevole responsabilità di chi la sperimenta. Ciascuno con le proprie forze e risorse interiori. Ma quasi sempre, essa costituisce un momento estremamente “fragile” dell’esistenza, un momento in cui ogni persona ha particolare bisogno di supporto e solidarietà fattiva, di cura e sollievo, di affetto ed amore.
Questo la nostra società – anzitutto attraverso lo strumento della politica – dovrebbe preoccuparsi di assicurare a chi giunge al termine della sua vita in condizioni di malattia e sofferenza, non la scorciatoia deresponsabilizzante dell’eutanasia.
Caro Saviano,
dici che è una questione di libertà di scelta e di diritti personali. Ma la libertà non esiste a prescindere da noi stessi, esistono le persone libere.
E giungere a togliersi la vita come manifestazione della propria libertà è in realtà una contraddizione radicale, perché significa distruggere la radice stessa della libertà, la persona vivente.
No Roberto, non precludiamoci la possibilità di dare vera dignità anche alla morte, vivendola umanamente fino in fondo e trasformandola in occasione di prossimità e fratellanza. L’eutanasia non è la soluzione, è una sconfitta per tutti.
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