REGNO UNITO – “Noi britannici abbiamo il nostro Commonwealth delle Nazioni; perché non dovrebbe esistere un raggruppamento europeo in grado di dare un senso di più ampio patriottismo e di comune cittadinanza ai popoli smarriti di questo continente turbolento e potente? E perché non dovrebbe occupare il posto che gli spetta insieme ad altri raggruppamenti e contribuire a modellare i futuri destini dell’umanità? Per questo vi dico; facciamo sorgere l’Europa!”. Era il 19 settembre 1946: sono trascorsi settant’anni dal giorno in cui all’Università di Zurigo Winston Churchill pronunciava queste parole. Affacciandosi al balcone del palazzo che lo ospitava aveva sollevato il suo cappello con il bastone da passeggio e lo faceva roteare con abilità per salutare la folla. Nell’immagine, peraltro simpatica, si esprimevano due atteggiamenti inglesi rispetto all’Europa: la distanza e la vicinanza. Non due contrapposizioni inconciliabili, non un’indifferenza, ma un tipico modo insulare di vedere e interpretare il continente.
Da Churchill alla Thatcher. Dalla fine della seconda guerra mondiale gli scenari sono profondamente cambiati: il Commonwealth non esiste più ma sopravvive qualche soffio del suo spirito; il conflitto armato tra Paesi europei non esiste più ma cresce la convinzione che i muri offrano più sicurezza dei ponti.
Un altro segnale venne da Margareth Thatcher quando il 19 settembre 1988 intervenne a Bruges, al Collegio d’Europa, con un memorabile discorso critico, ma non certo distruttivo, sul progetto comune europeo. “Io ritengo – disse la Lady di ferro nel concludere il suo intervento – che non è sufficiente parlare in termini generali della visione o dell’ideale d’Europa. Se noi crediamo in questo ideale dobbiamo tracciare una strategia per il futuro e definire i prossimi passi”. Forse, afferma Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento, nel libro “Il gigante incatenato”, questi passi non sono quelli che, come sta avvenendo, portano a incoraggiare gli euroscettici britannici “a mettere in discussione l’appartenenza della Gran Bretagna all’Ue”.
Distanza-vicinanza. Come affrontare, senza scadere in reciproche accuse, la questione britannica della “distanza-vicinanza” in un tempo di grande fragilità della politica comune, di forte crescita del terrorismo islamista, di preoccupante globalizzazione dell’indifferenza?
La Gran Bretagna sa fin troppo bene che abbandonare una navigazione pericolosa non significa avere automaticamente la certezza di raggiungere un porto sicuro.
Quale potrà essere il futuro di una Gran Bretagna se per eccesso di sentimento identitario e di pensiero liberale, sarà più forte dentro se stessa ma più debole fuori da se stessa? La cultura e la storia britanniche, che sono di indiscutibile grandezza, come di indiscutibile grandezza sono gli errori compiuti dalla politica britannica in molte aree del mondo, dovrebbero suggerire un pensiero diverso da quello dell’euroscetticismo.
Cogliere i segnali d’inquietudine. Non si tratta di esprimere un giudizio bensì di cogliere un segnale di inquietudine perché l’uscita dall’Ue di una grande democrazia non sarebbe indolore né per l’una né per l’altra parte. Scriveva recentemente “The Tablet” a proposito del referendum del 23 giugno – in cui gli inglesi saranno chiamati a esprimersi sul rimanere o meno nell’Ue – che occorre tenere a bada i demoni che abitano molti Paesi europei e l’Unione europea nel suo insieme: i nazionalismi, i populismi, le burocrazie e le tecnocrazie. Il giornale aggiungeva cheper i britannici c’è “bisogno di slancio, di una visione realistica di Europa che funzioni per tutti i suoi popoli e li convinca a credere in essa”. Se, come commentava “The Tablet”, “l’Europa non si realizzerà senza la Gran Bretagna”, la Gran Bretagna non realizzerà se stessa senza l’Europa.
Il rischio? Una strada senza uscita. Churchill e Thatcher di questo erano consapevoli e il loro realismo, senza venir meno allo spirito dell’isola, li ha sempre tenuti lontani dagli “ismi” dei demoni. Una lezione da non trascurare. Anche oggi, commenta Martin Schulz, “non deve essere riposto un briciolo di fiducia in chi promette soluzioni facili e ha sempre un capro espiatorio a portata di mano”. La Gran Bretagna è troppo avveduta per finire in una strada senza uscita. Quello del 23 giugno più che un referendum sulla sua appartenenza all’Ue appare dunque un referendum su se stessa, sulla propria cultura, sulla propria storia, sulla propria democrazia. Pagine scritte e da scrivere con lo spirito autentico dell’isola, non con quello ideologico e demagogico dei demoni.