Una testimonianza toccante ma piena di speranza quella resa stamattina dal Patriarca Latino di Gerusalemme, monsignor Fouad Twal, sulla situazione dei cristiani in Terra Santa.
Incontrando gli studenti e i docenti della Pontificia Università della Santa Croce, presso l’Aula Magna Giovanni Paolo II del medesimo ateneo, il Patriarca è stato introdotto dal saluto e dalla presentazione di mons. Luis Romera e del prof. Pablo Gefaell, rispettivamente rettore e vicerettore accademico.
Il Patriarcato di Gerusalemme, che abbraccia un territorio molto vasto, comprendente Israele, Palestina, Giordania e Cipro, accoglie al suo interno “i discendenti in linea diretta dei cristiani della primissima comunità Cristiana, la Chiesa Madre di Gerusalemme”, ha ricordato Twal.
Una piccola comunità, poco dopo evolutasi in due ceppi: l’Ecclesia ex circumcisione (giudeo-cristiani) e l’Ecclesia ex gentibus (romani, greci, aramei, cananei, fenici, filistei, nabatei, moabiti, ammoniti, ecc.). La loro lingua universale era l’aramaico ma nelle città erano parlati anche il greco e il latino.
Mentre, intorno al VII secolo, quando ormai tutta la Palestina era cristianizzata, i giudeo-cristiani sparirono dalla Terra Santa, la comunità ex gentibus continuò ad espandersi notevolmente, evangelizzando anche i beduini.
Sempre nel VII secolo, con l’arrivo dell’Islam, lo scenario iniziò a cambiare “lentamente ma radicalmente”: la lingua e la cultura diventano arabe ed il cristianesimo comincia ad arretrare.
Nei secolo si susseguono vari regimi: arabo, crociato, mamelucco, ottomano e inglese. Fino ai giorni d’oggi, in cui i cristiani autoctoni della Terra Santa sono “consapevoli, ieri come oggi, della portata storico-salvifica di ciò che è accaduto vicino alle loro case e di come, nel tempo, si sia da qui diffuso tale lieto annuncio”.
Gente “semplice”, “amante della pace” e “ospitale”, i cristiani della Terra Santa hanno anche un “dono straordinario di resistenza”, ha commentato monsignor Twal.
Attualmente i cristiani sono 450mila, quindi meno del 2% dell’intera popolazione della Terra Santa, mentre a Gerusalemme il loro numero non arriva 12mila.
Nonostante i connotati di “piccolo gregge”, peraltro, tristemente e costantemente in diminuzione, i cristiani rimangono “parte integrante ed essenziale della loro comunità”, rivelandosi un “cuscinetto” tra le due “presenze maggioritarie” ebrea e musulmana.
Il Patriarca si è quindi soffermato nello specifico sulle problematiche più recenti del suo territorio, che vanno a sommarsi ai disagi storici: a partire dal muro di separazione che, lungo più di 700 km e alto circa 8 metri, oltre ad isolare la popolazione palestinese, “limita la libertà di movimento, di studio, di lavoro, di viaggio, di cure mediche”.
C’è poi il fenomeno dell’“intifada dei coltelli”, che coinvolge ragazzi molto giovani, di 12-13 anni, che, così armati, si azzuffano per ragioni che nulla hanno a che vedere con la politica.
Da parte loro, i militari israeliani hanno i “nervi rotti” e, a volte, aprono il fuoco con molta disinvoltura, quando ben più “umano”, ha sottolineato, il Patriarca, sarebbe catturare i delinquenti e consegnarli ai tribunali.
Quanto alla tragica situazione di Gaza, Twal ne ha denunciato le “incalcolabili le conseguenze dolorose, soprattutto tra la popolazione più giovane, le profonde ferite psichiche, relazionali, esistenziali, lasciate dai traumi subiti” a seguito dei tre conflitti del 2008, 2010 e 2014, per la cui ricostruzione, i 5 miliardi di dollari stanziati non sono mai stati erogati, a ragione del fatto che la pace è la conditio sine qua non.
A questo punto il Patriarca si è domandato: “Chi può far guarire davvero un bambino di 8 anni che ha visto morire i genitori, o la nonna che non poteva scendere dal palazzo perché non riusciva a camminare, oppure era troppo sorda per accorgersi del pericolo? Chi può fare di questo bambino un cittadino sano, normale, che provi affetto e rispetto per tutti?”.
Un segno di speranza per la Terra Santa arriva però dall’accordo tra Santa Sede e Palestina, siglato il 26 giugno 2015. Quando il nunzio apostolico in Gerusalemme, monsignor Giuseppe Lazzarotto, gli chiese un parere in merito, la risposta di Twal fu: “La Santa sede, d’accordo con la sua coscienza e in spirito di giustizia, deve riconoscere lo Stato di Palestina adesso e non aspettare il riconoscimento da parte di tutta l’Europa per pronunciarsi, altrimenti non avrebbe nessun merito. Riconoscendo adesso lo Stato di Palestina avrà la gratitudine di tutto il mondo musulmano”.
Tornando al progetto “folle e senza senso” della costruzione di un nuovo tratto di muro nella Valle di Cremisan, il Patriarca ha sottolineato la sentenza contraria della corte di Giustizia Israeliana che, un anno fa, dichiarò tale muro “non necessario per la sicurezza di Israele”.
Un pronunciamento per il quale, ha commentato Twal, “abbiamo gridato vittoria: vittoria dei giudici israeliani che non hanno obbedito agli ordini militari, vittoria della Società legale Saint Yves, che ha preso in mano il caso, vittoria per i cristiani che pregavano ogni venerdì nel campo per impedire la costruzione del muro”.
È un governo, quello israeliano, che, pur proclamandosi “laico e democratico”, in realtà si sta comportando sempre più come un “regime militare confessionale giudaico”, ha lamentato il Patriarca, con riferimento, tra le altre cose, al sistema scolastico, in cui tutti gli allievi, anche non ebrei, ricevono il solo insegnamento della religione ebraica e i cristiani rischiano così di “perdere le loro radici”, mentre i sussidi alle scuole cattoliche sono ridotti al 29%.
Tutto ciò, nonostante l’accordo firmato con la Santa Sede nel 1993, in cui lo Stato d’Israele si impegnava “alla libertà di religione e di coscienza, alla promozione della reciproca comprensione tra le nazioni, alla tolleranza fra le comunità e al rispetto per la vita e la dignità umana”.
Israele, dunque, ha messo in atto una vera e propria occupazione che, in sé, è “sempre una realtà odiosa: fa male all’occupante che perde il senso del rispetto e della dignità altrui, come fa male all’occupato, in cui cresce il senso di rifiuto, di rancore, di ribellione”.
Un aspetto paradossale di questo stato di cose è che, pur con un notevole flusso di turisti da tutto il mondo (Cina e Giappone compresi), il parroco di Ramallah, per venire nella Città Santa con la sua comunità, deve chiedere l’autorizzazione governativa con due mesi di anticipo e il governo stesso decide a sua discrezione chi può andare, lasciando a casa e facendo partire anche membri della stessa famiglia.
Se Israele vorrà diventare uno stato davvero “democratico” e non “sionista”, sarà auspicabile la nascita di “due Stati” israeliano e palestinese “con frontiere chiare e sicure”, come auspicato dalla comunità internazionale e anche dalla Santa Sede.
In questo scenario drammatico, i cristiani della Terra Santa continuano a vivere una “dimensione ecumenica” e “di dialogo” e ad essere “testimoni viventi della storia della salvezza”; inoltre “con la loro preghiera e il loro amore, con le loro prove, con la loro fede”, possono impedire che “i Luoghi Santi stessi si riducano ad essere solo dei siti archeologici”.
Rispondendo ad una domanda di ZENIT sulla situazione dei rifugiati in Medio Oriente e in Europa, il Patriarca Latino di Gerusalemme ha sottolineato che, nella sola Giordania, i profughi arrivano a coprire il 20% di tutta la popolazione, quindi una percentuale di una ventina di volte superiore ai numeri del Vecchio Continente.
Pertanto l’Europa, secondo monsignor Twal, dovrebbe aprirsi di più al precetto evangelico: “Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35). “Il nostro modo di accogliere e di ricevere sarà il criterio con cui il Signore ci giudicherà”, ha sottolineato, ricordando che in Giordania gli ultimi rifugiati iracheni erano “tutti cristiani”: costoro “hanno perso tutto ma non hanno mai perso la fede. Potevano salvarsi convertendosi all’Islam ma hanno preferito perdere tutto”.
“In Europa avete tutto – ha aggiunto il Patriarca – ma non il coraggio di privarvi di qualcosa. Sono stato in Austria, dove ho visto decine di case di campagna abbandonate, che sono rimaste vuote… Se non vogliamo che i rifugiati vengano da noi, la comunità internazionale e la politica deve fare pace a casa loro e loro volentieri vi rimarranno. Se però noi, per interessi, vendiamo armi e facciamo la guerra a casa loro, le conseguenze saranno quelle. Non possiamo giocare con il destino dei popoli!”.
A tal proposito, in conclusione, Twal ha accennato ad un episodio accadutogli in un campo profughi in Giordania, dove “una signora non voleva farsi fotografare con me”, perché, come spiegato poi dal marito, era triste per aver smarrito la figlia, durante la fuga dall’Iraq. “Questi sono i risultati di una politica ingiusta e immorale”, ha poi concluso il Patriarca.