Si è consumata nei giorni scorsi l’ennesima tempesta sul filo rosso politica/magistratura. Piercamillo Davigo, già al pool di mani pulite Milano ed ora presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, spara a zero sulla corruzione e “la politica”. Si scatenano reazioni pirotecniche nell’arco di un paio di giorni, a sottolineare due cose. Innanzi tutto che questo resta un nervo scoperto, ma anche che l’attuale leadership, a partire dallo stesso Renzi, non teme il confronto dialettico.
La sensazione è che, dopo questa ennesima fiammata, Mani pulite sia più lontana:
di fronte a certi toni di magistrati pure influenti, il fronte di coloro che ne possono trarre profitto politico è meno largo, meno influente e rilevante politicamente. Insomma il declino politico di Berlusconi sembra attenuare il valore politico delle iniziative della magistratura (inquirente) che hanno caratterizzato ormai oltre vent’anni di storia politico-istituzionale italiana.
Non è un caso che lo schema per cui tutti i politici sono corrotti, con la novità che non se ne vergognano neppure, contestate dai più, siano lasciate all’enfatizzazione solo da parte del M5S, ovvero ad un’area definita comunque come quella della “protesta”.
Questo sul piano della dialettica politica: se così fosse insomma si delineerebbe (finalmente) una situazione più “normale”, per cui le iniziative della magistratura giustamente colpiscono reati, che vanno perseguiti senza sconti per nessuno e senza guardare in faccia a nessuno, ma non possono rappresentare, né innescare conflitto tra poteri dello Stato.
Su un piano più strutturale si possono fare altre due considerazioni.
La prima viene da lontano, ovvero dal Brasile, alle prese con un problema di corruzione che sta provocando la messa in stato d’accusa della presidente. Per non dire di molte altre realtà, a partire dalla Cina, in cui la corruzione resta una questione strutturale e una zavorra gravissima per lo sviluppo.
Questo ci introduce alla seconda questione, ovvero la stoffa morale della classe politica e di conseguenza le forme della sua selezione. Per carità, non c’è nulla di peggio che fare del moralismo e per questa via impancarsi a porre una “questione morale” ritagliata sul profilo degli avversari politici.
Ma è evidente che l’onestà deve essere un pre-requisito, insieme alla capacità, per chi si candida e viene eletto per rappresentare e governare, dunque per occuparsi del bene comune, che non è un concetto astratto, ma è il bene di tutti e di ciascuno.
Se l’onestà è un pre-requisito occorre che ci siano le condizioni istituzionali perché le persone oneste e capaci possano operare e non si faccia la selezione della classe politica sulla base della disponibilità ad “una certa reciprocità di favori”. E qui c’è veramente molto da fare, per tutti. Perché, in Italia, come in Occidente e nei Paesi che cercano lo sviluppo è qui il nodo della democrazia del ventunesimo secolo.