Zenit, di Luca Marcolivio
VATICANO – La figura del Buon Samaritano è di nuovo al centro della predicazione di papa Francesco. La celebre parabola (cfr Lc 10,25-37) è stata meditata dal Santo Padre durante l’Udienza Generale di ieri mattina, cui sono accorsi almeno 25mila pellegrini, nonostante il tempo incerto.
Nella parabola, emergono due interrogativi dei dottori della Legge a Gesù: cosa fare per ereditare la vita eterna? (v.25); chi è il mio prossimo? (v.28). La seconda domanda sottintende la prima: si ottiene la vita eterna proprio amando il prossimo; e dà luogo al racconto della parabola, di cui sono protagonisti un sacerdote, un levita e un samaritano.
I primi due sono “figure legate al culto del tempio”, mentre il terzo è “un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro”.
Lungo la strada da Gerusalemme a Gerico, giace un viandante aggredito dai briganti e moribondo: la Legge del Signore prevede l’obbligo di soccorrerlo ma, paradossalmente, sia il sacerdote che il levita “passano oltre senza fermarsi”, ha sottolineato il Santo Padre.
“Erano di fretta – ha commentato a braccio -. Il sacerdote forse ha guardato l’orologio e ha detto: ‘Arrivo tardi alla Messa, devo dire messa’, e l’altro ha detto: ‘Non so se la legge mi permette, perché c’è il sangue lì e io sono impuro”.
Il primo insegnamento che la parabola ci trasmette è che “non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo”. E così accade che il sacerdote e il levita “guardano ma non vedono”, tuttavia “non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo”, ha rammentato il Pontefice.
Di fronte alle sofferenze di persone sfinite “dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori – ha proseguito il Papa -. Ignorare la sofferenza dell’uomo significa ignorare Dio!”.
Il vero “centro della parabola” è tuttavia il Samaritano, ovvero il “disprezzato”, quello su cui “nessuno avrebbe scommesso nulla” e che, pur avendo anche lui “i suoi impegni”, quando vede il ferito, si ferma e ne ha “compassione” (v. 33).
Mentre i primi due hanno visto ma i loro cuori sono rimasti “chiusi” e “freddi”, “il cuore del samaritano era sintonizzato con il cuore stesso di Dio”, poiché, la “compassione” è una “caratteristica essenziale della misericordia di Dio”.
È proprio “nei gesti e nelle azioni” del Buon Samaritano che è riconoscibile “l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza”, di Dio che “non ci ignora, conosce i nostri dolori, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione. Ci viene vicino e non ci abbandona mai”.
Il soccorso prestato a quell’uomo dal Samaritano, che ne fascia le ferite, lo porta in albergo e provvede alla sua assistenza, ci ricorda che “l’amore non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare di persona”.
Al termine della parabola, Gesù “ribalta la prospettiva” della domanda iniziale su chi sia il nostro prossimo: non lo sono tanto coloro che avviciniamo ma, piuttosto, noi stessi possiamo diventare “prossimo” di chi si incontra “nel bisogno” se, nei loro confronti, si ha un cuore carico di compassione, ovvero di “capacità di patire con l’altro”.
La parabola del Buon Samaritano, dunque, è un “regalo stupendo” ed anche un “impegno” per tutti noi, chiamandoci a imitare questa figura evangelica che è “figura di Cristo”, il quale “si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato”, ha quindi concluso papa Francesco.
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