Sullo schermo giganteggiano le immagini panoramiche di una telecamera a 360° piazzata al centro di un campo di rifugiati in Europa. Dove esattamente nessuno lo sa. Viene subito messa a tacere anche la voce del giornalista che, in collegamento, avrebbe potuto dare qualche informazione in più. La platea di addetti ai lavori però applaude compulsivamente. Si tratta della cronaca di una dimostrazione delle nuove strategie per il giornalismo partecipato che Facebook ha presentato all’evento “F8”, la conferenza per gli sviluppatori che si è svolta a San Francisco a metà aprile. Sul palco c’era Will Cathcart, un esperto che gli addetti ai lavori hanno già ribattezzato il “news feed guru” di Facebook.
Il giornalismo sta cambiando. Si tratta di un terremoto prodotto da mille scosse diverse.
Apparentemente nessuna delle iniziative che Google, da una parte, e Facebook, dall’altra, stanno prendendo in questi mesi sono collegate fra di loro. Il risultato però è sorprendente. L’industria dell’informazione internazionale ha smesso di produrre innovazione e tutti gli editori si sono messi a seguire (e a scodinzolare) dietro ad ogni annuncio dei due giganti del web. I dati sono preoccupanti. Facebook ha un miliardo e mezzo di utenti e non nasconde la volontà strategica di andare a prendersi tutti quelli che ancora mancano all’appello. Google gigioneggia con le commissioni antitrust in Europa e nel resto del mondo ma, nella realtà, è fermamente determinata a conquistare e a mantenere l’assoluto monopolio del web, in tutto il mondo. Le due aziende, già da tempo, stanno investendo una parte rilevante dei loro smisurati guadagni in settori apparentemente molto lontani dal core business originale.
Intelligenza artificiale, realtà virtuale, droni, sono solo alcuni dei campi dove i laboratori di ricerca di Facebook e Google stanno spendendo milioni di dollari.
Sullo sfondo ci sono sempre e soltanto i contenuti che le persone cercano con Google e che condividono con Facebook. L’industria del giornalismo internazionale non poteva rimanere fuori dai loro infiniti appetiti. Google, per esempio, in Europa ha lanciato “Digital News Initiative”, una gara per l’innovazione che è aperta a tutti gli editori europei. Sul tavolo ha messo finanziamenti ingenti, circa 150 milioni di dollari. I fondi vengono elargiti arbitrariamente a quelle iniziative editoriali che dimostrino una capacità innovativa di far girare un numero maggiore di contenuti nel motore di ricerca di Google. In una spirale di autolesionismo che rischia di uccidere il giornalismo, gli editori hanno aderito con entusiasmo. Si stanno sbizzarrendo così ad inventare nuovi sistemi per alimentare un sistema informativo che sia coerente con gli algoritmi di Google e non con i principi della libertà di espressione e del pluralismo. Facebook ha lanciato nel frattempo una nuova applicazione che agevolerà la pubblicazione istantanea di articoli e di notizie. Gli esperti di Zuckerberg hanno capito che lo scambio di informazioni personali sta diminuendo mentre invece sta aumentando il ritmo dello scambio di informazioni di interesse generale. Facebook, però, sa bene anche che un link ad una pagina esterna corre il rischio di “distrarre” l’utente. L’utilizzatore ideale di Facebook deve rimanere profondamente immerso nel sistema chiuso del network più grande del mondo.
Diventa così più chiaro perché al “F8” di San Francisco, a metà aprile, Will Cathcart non si sia preoccupato di dire in quale centro profughi fosse stata piazzata quella telecamera 360° e non abbia avuto esitazioni nel togliere l’audio al giornalista.
Il dramma dei rifugiati, il prato della Casa Bianca o il tappeto rosso degli Oscar, nella strategia di Facebook, hanno lo stesso valore.
Svolgono la medesima funzione delle lampare che, nelle notti d’estate attirano pesci inconsapevoli nelle reti dei pescatori.