Qualche sera fa ero tornato a casa, dal lavoro, un po’ scoraggiato. Tanta fatica per sperimentare un’informazione diversa ma… mi interrogavo… potrà mai competere il piccolo veliero di tv2000 (lo stesso può dirsi per la rete delle radio e dei settimanali cattolici) con le corazzate che solcano il grande oceano delle news? E allora, vale la pena? E perché?
Crollato sul divano, incerto se preparare qualcosa da mangiare o andare subito a letto, ho acceso un attimo la televisione sui canali della ‘concorrenza’. Una nota e accreditata conduttrice di un programma di approfondimento politico, con l’aria di chi la sa lunga, stava chiedendo a un collega direttore (di cui quasi mai condivido le opinioni) come andasse la sua relazione con la compagna, un’agguerrita esponente del centro destra. E insisteva, la conduttrice, nel pretendere una risposta. Come se fosse un suo diritto e diritto del pubblico – vero giornalismo insomma – fare intrusione nelle pieghe dei sentimenti di una persona. Passano pochi minuti e inizia un altro talk di informazione. Parte un video. Un giornalista con la sua troupe blocca Beppe Grillo sulla soglia della camera ardente dove è stata appena composta la salma di Casaleggio. Gli chiede con tono perentorio cosa ne sarà dei cinque stelle ora che il co-fondatore non c’è più. Prova a inseguirlo per qualche metro, esigendo una risposta, finché la porta della camera ardente non si chiude alla spalle dell’ex comico. Va bene, Grillo è un personaggio pubblico, può stare più o meno simpatico, ma non avrà diritto anche lui a piangere la scomparsa di un amico? Ci sarà tutto il tempo per fargli tutte le domande sul futuro politico dei grillini, dopo avergli concesso lo spazio minimo del lutto, no?
Mentre mi alzavo dal divano per cucinarmi qualcosa pensai che si, forse valeva la pena impegnarsi per un’informazione diversa. Se non altro
per resistere a questa barbarie che fa sembrare normale quel che normale non è: l’erosione della soglia minima di rispetto che si deve alla persona, in quanto tale.
Scusate il racconto personale, ma vorrei dare concretezza all’invito di commentare ilmessaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. E siamo in tema. Perché il Messaggio non è un predicozzo clericale sul galateo delle news ma entra in modo puntuale nei meccanismi malati dell’informazione indicando a tutti, cominciando dai cattolici, la strada di una comunicazione più utile e vera. “Comunicazione e misericordia, un incontro fecondo”, il titolo. Francesco d’altra parte è un esempio vivente di buona comunicazione. Ci parla di cose piccole o grandi, dai più drammatici eventi mondiali al più banale lancio di piatti in famiglia, con linguaggio che tocca cuore e mente di ognuno. Dal più colto al più umile, dal cattolico praticante all’ateo incallito. Diversamente da molti altri leader risulta convincente; perché, semplicemente, crede in quel che dice. E la gente lo percepisce.
Alla comunicazione Francesco affida un compito importante, suggestivo: “ha il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione, arricchendo così la società. Com’è bello – annota il Papa – vedere persone impegnate a scegliere con cura parole e gesti per superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia».
Scegliere con cura le parole… “Bastardi islamici” titolò un quotidiano, all’indomani degli attentati di Bruxelles. Titolo che trasmette obiettivamente un messaggio d’odio verso tutti i musulmani, anche quelli, e sono ancora la maggioranza per fortuna, che considerano i terroristi solo dei criminali (loro certo bastardi) che uccidono senza pietà persone innocenti. Terroristi che, come il famigerato Salah ora al sicuro in una cella, spesso conoscono del Corano appena un paio di versetti e bestemmiano con le loro azioni il nome di Dio.
Scrive il papa: “Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio per tutti”. Il che
non significa ovviamente rinunciare a chiamare il male con il suo nome o soffocare una santa indignazione di fronte alla ingiustizia.
Gesù fece pulizia nel tempio di Gerusalemme cacciando con maniere spicce i mercanti dal sacro recinto e scagliò terribili invettive contro i farisei ipocriti, “sepolcri imbiancati”. Ma anche quando prendeva a frustrate i mercanti o esprimeva con parresia il suo dissenso rispetto ai capi religiosi, era sempre un amore più grande a muoverlo. L’amore per la verità, l’amore soprattutto per i peccatori, per i poveri, i malati, insomma per gli ultimi, che la rigidità della legge sembrava escludere dalla salvezza. E loro, gli ultimi, che lo seguivano, percepivano anche nelle parole più severe di Gesù una forma di tenerezza, il desiderio quasi di proteggerli dall’arroganza del potere.
Tutti altri sentimenti rispetto a quelli che traspaiono in tanti blog del mondo digitale. Dove le sacre invettive lasciano il posto alla mondanissima rozzezza dell’insulto o alla palese, malata affermazione del proprio super-io.
Tutti quelli che abitano il mondo virtuale o ci mettono il naso ogni tanto si saranno imbattuti in queste forme barbariche di comunicazione, in ogni campo di interesse, dalla politica allo sport. Negatività che contagia alcune volte persino siti e blog che sbandierano il loro cattolicesimo.
Un livore continuo, un astio seriale scaricato contro chi appare ‘eretico’ rispetto alle loro presunte verità. Con alcuni paradossi tragi-comici. Come quando nel mirino degli ultrà cattolici finisce la stessa persona del papa. Bersagliato con un linguaggio che noi anziani fedeli formati sul catechismo di San Pio X, stentiamo a credere possibile. Perché su quelle pagine mandate giù a memoria si imparava un atteggiamento rispettoso – anzi a quei tempi si diceva “ossequioso” – verso il Vescovo di Roma. Cosa ovviamente diversa dalla libertà dei figli di Dio di tenere in massimo ascolto la propria coscienza fino al diritto-dovere di esprimere alle autorità ecclesiastiche dubbi e perplessità sul loro comportamento e su loro taluni insegnamenti. Ma c’è modo e modo.
L’impressione talvolta è di trovarsi di fronte a un cristianesimo culturale dove trova posto tutto, tranne i sentimenti di Gesù.
Concludo con un’idea che nasce dall’esperienza professionale degli ultimi anni. La gente ha fame di storie, di vedere e leggere storie positive. L’attrattiva che esercita Francesco anche sui “lontani” dalla Chiesa non si spiega altrimenti. Bisogno di positività. Naturalmente chi ha il compito di informare non può nascondere le brutte notizie. Anzi, mai come in questo tempo confuso, c’è un dovere di spiegare ad esempio le vere cause di tanti sanguinosi conflitti. Liberi da condizionamenti ideologici. Ma se ci limitassimo a raccontare quel che nel mondo non va, sarebbe davvero triste accendere la tv o acquistare un giornale. Che fare? Raccontare le tante storie belle di lavoro, di gratuità, di perdono, di carità sociale che – nonostante la crisi e in mezzo alla crisi – fioriscono nel nostro territorio. Dare spazio, nell’inferno, a ciò che inferno non è. Guardate cosa scrivono il papa e un grande scrittore laico. Usano lingue diverse ma in fondo intendono la stessa cosa.
“E, tuttavia, oggi i nostri occhi hanno bisogno di focalizzare in modo particolare i segni che Dio ci ha concesso, per toccare con mano la forza del suo amore misericordioso. Non possiamo dimenticare che tante giornate sono state segnate da violenza, da morte, da sofferenze indicibili di tanti innocenti, di profughi costretti a lasciare la loro patria, di uomini, donne e bambini senza dimora stabile, cibo e sostentamento. Eppure, quanti grandi gesti di bontà, di amore e di solidarietà hanno riempito le giornate di quest’anno, anche se non sono diventate notizie dei telegiornali. Le cose buone non fanno notizia. Questi segni di amore non possono e non devono essere oscurati dalla prepotenza del male”
(Omelia in occasione del Te Deum, 31 dicembre 2015)
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli lo spazio”
(Italo Calvino, Invisible cities)