“Ci sono oggi storie che ci permettono di dire che c’è una riconciliazione pratica, attuata con la forza di voler aprire la giustizia alla bontà e di dare alla bontà la forza della giustizia”. Lo ha affermato ieri mattina don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, intervenendo al Salone del Libro di Torino alla presentazione di “La giustizia capovolta” (Paoline) di cui ha scritto la prefazione. Don Ciotti ha parlato di “una nuova idea di giustizia che sta crescendo ma che viene da lontano” rivendicando la “nostra battaglia” fatta come Gruppo Abele negli anni ‘70 a Torino quando “grazie al magistrato Radaelli 12 di noi hanno vissuto stabilmente nel carcere”. Si tratta quindi di “una storia che viene da lontano”, ha proseguito don Ciotti, definendo “un atto d’amore quello di dare una mano ai ragazzi per farli prendere coscienza di ciò che avevano commesso affiancando l’atto di responsabilità di dare loro delle nuove opportunità”. Parlando dell’incontro tra vittime e colpevoli, don Ciotti ha sottolineato che “sono proprio i famigliari delle vittime di mafia a porsi delle domande, a cercare di capire”, ma “oltre il 75% di loro non conosce la verità di ciò che è successo”. “C’è bisogno di verità – ha ammonito – per raggiungere la giustizia”. Don Ciotti ha parlato anche dell’importanza della memoria che “non si trasformi in retorica e inganno della memoria” e ha riconosciuto “i passi in avanti fatti e l’impegno di un giovane ministro che sta lavorando con umiltà”. Citando le pesti indicate nel 1984 dal card. Carlo Maria Martini di fronte alla sorpresa di tutti, don Ciotti ha concluso puntando il dito contro la “povertà relazionale – la solitudine a tutte le età – che dilata l’isolamento, le sofferenza e le paure”.
“Saranno i giovani a custodire un’idea di giustizia umana. Per questo ho scritto questo libro pensando a loro, perché – come diceva Primo Levi – quello che si dimentica potrebbe ritornare”. Lo ha affermato invece padre Francesco Occhetta, autore di “La giustizia capovolta” (Paoline). “Rimettiamo al centro il dolore delle vittime e ricostruiamo per chi ha sbagliato percorsi umani”, ha proseguito il gesuita, per il quale “se anche nelle carceri non riprendiamo la dimensione spirituale, chi fa il male non lo può capire. Invece dobbiamo aiutare chi ha sbagliato a capire il bene e il male che hanno fatto”. Questa convinzione nasce dall’esperienza del carcere di Nuova Dehli che lo stesso Occhetta ha studiato. “La direttrice del carcere – ha spiegato – ha voluto riscoprire la dimensione antropologica della vita dei detenuti per uscire da una situazione nella quale si aveva con 10mila carcerati una recidiva del 90%”. Inoltre “se noi facciamo reincontrare chi ha sbagliato e chi ha sofferto per i loro sbagli, anche le nostre relazioni umane cambiano, la nostra solitudine svanisce”. “Il libro – ha concluso padre Occhetta – indica come dalla Bibbia viene questa istanza, che non è uno zuccherino, ma aiuta ad integrare l’altro modello di giustizia e ci aiuta a costruire una cultura nella quale ci ri-conosciamo senza conoscerci e possiamo sperare in una pace e in una giustizia che il nostro Paese aspetta da troppo tempo”.