Le Costituzioni passano, il Vangelo resta. Di questa consapevolezza vivono i credenti, mentre ai non credenti spesso capita di attribuire alle Costituzioni un valore messianico che finisce per entrare in rotta di collisione con il principio di realtà.
“Sono cattolico, ma ho giurato sulla Costituzione non sul Vangelo”,
ha affermato ieri sera il premier Matteo Renzi a favore di telecamera nel salotto televisivo di Bruno Vespa, dopo l’approvazione mediante l’ennesimo voto di fiducia del disegno di legge sulle unioni civili. Al premier credente a modo suo, come in fondo lo siamo tutti in questo tempo secolarizzato e globalizzato, è sembrato giusto ribadire un’ovvietà: il presidente del Consiglio giura fedeltà alla Costituzione italiana. “Ben fatto, bravo”, verrebbe da dire. Siamo tutti cittadini consapevoli e avveduti. Conosciamo a memoria il “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, architrave della laicità ben intesa.
Ma perché tirare in ballo il Vangelo? Solo qualche anno fa si sarebbe detto che ha vestito i panni del “cattolico adulto”, ma oggi queste sottigliezze sono superate dal rimescolamento generale delle categorie politiche e culturali. A cui lo stesso Renzi ha contribuito, a partire dalla sua spiccata vocazione alla disintermediazione politica, sociale e culturale.
Dunque resta solo la domanda: perché ha citato il Vangelo? Era necessario? Era utile? Era opportuno? Solo il premier potrebbe rispondere. L’ha fatto e questo ci basta. Ci deve bastare.
Aggiungiamo, solo a mo’ di tranquillante politico culturale, che noi cattolici siamo convinti che l’ethos cristiano sopravviva a tutto, anche a un qualunque disegno di legge sulle unioni civili. Così come è stato, nell’Italia repubblicana, per le leggi sul divorzio e sull’aborto. Per non parlare degli eccessi in materia di biotecnologia applicata alla vita nascente. Ma soprattutto noi non scomodiamo mai il Vangelo che custodiamo nel nostro cuore e non lo usiamo come una clava contro nessuno.