Lunedì 16 maggio Papa Francesco ha pronunciato il suo terzo discorso di apertura dell’Assemblea della Cei, che quest’anno ha come tema “Il rinnovamento del clero”, nella volontà di sostenere la formazione lungo le diverse stagioni della vita.
Il Santo Padre ci sorprende sempre. Questa volta con un “capovolgimento della prospettiva”. Invece di offrire “una riflessione sistematica sulla figura del sacerdote” ci invita a “metterci in ascolto”. Propone ai vescovi un atteggiamento contemplativo.
Questa può essere una prima chiave di lettura:
da una prospettiva moralista astratta a una prospettiva contemplativa concreta.
Ascoltiamo, dunque, prima di tutto quello che dice:
“Avviciniamoci, quasi in punta di piedi, a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità; lasciamo che il volto di uno di loro passi davanti agli occhi del nostro cuore e chiediamoci con semplicità: che cosa ne rende saporita la vita? Per chi e per che cosa impegna il suo servizio? Qual è la ragione ultima del suo donarsi?”.
Al centro, un’immagine: un parroco, un sacerdote comune. Non il sacerdote ideale, non una persona astratta. Soltanto un sacerdote “che si spende nelle nostre comunità”. Il Papa lo chiama più volte il “nostro sacerdote”, sottolineando “il nostro”. Richiama quell’immagine del sacerdote che tutti noi – preti e laici – abbiamo nei nostri cuori, perché ci ha fatto del bene in qualche momento della vita. Nel suo caso, sicuramente è tornato a evocare figure come quelle di don Enrique Pozzoli (salesiano), o di Roberto Iturrate (gesuita) e altri menzionati nei suoi libri. Rievocare queste immagini significa richiamare la vocazione sacerdotale, quello che uno pensa di un certo sacerdote: “Io voglio invecchiare come lui”. Vorrei essere come quel sacerdote (e non avere alcune cose di qualche altro…). Così, Papa Francisco va descrivendo questo “nostro sacerdote” e invita a compiere
tre passi contemplativi.
Il primo: “avvicinarsi” in punta di piedi scalzi (il nostro sacerdote è anche scalzo), con il pudore di chi si rende conto che lo stiamo guardando.
Il secondo passo è “lasciare che il suo volto passi davanti agli occhi del nostro cuore”. Contemplare un sacerdote che si consuma per il suo popolo non è un bello spettacolo. È un’altra cosa, come quando si guarda qualcuno che sta lavorando sodo, scavando un pozzo o correndo avanti e indietro in un ristorante, o cambiando i pazienti in ospedale. Il lavoro usurante ci interpella. E il Papa vuole che i vescovi si lascino interpellare dal lavoro dei loro sacerdoti.
Il terzo passo consiste nelle domande, perché la contemplazione degli Esercizi Spirituali si concretizza sempre in ciò che al Signore piace che io faccia qui e ora.
La seconda chiave di lettura del discorso può essere
il carattere trascendentale dell’impostazione.
Il Papa chiede semplicemente ciò che dà sapore alla vita del nostro sacerdote, da chi viene, qual è la ragione. Ma non si tratta di domande “specifiche”, bensì trascendentali, domande riguardo alla bellezza del sacerdozio, al suo bene ultimo, alla sua verità nel senso più ampio.
La bellezza non è per gli occhi, come abbiamo detto. Il nostro sacerdote potrà essere stanco, un po’ trasandato, anche un po’ scontroso talvolta. Neppure lui “vede” la bellezza nell’intreccio del lavoro quotidiano. Però sente il sapore di Cristo in quello che fa…
Affrontando la seconda domanda, “a favore di chi offre il suo servizio il nostro sacerdote”, il Papa inverte nuovamente la prospettiva. Prima di rivolgersi ai destinatari del suo servizio, ci fa “sentire ciò che sente il nostro sacerdote”: si sente parte della Chiesa, della sua comunità, del santo popolo di Dio, dei suoi fratelli sacerdoti. Prima di chiedere “per chi”, Francesco pone le domande su “con chi” e “in chi”. Fa gustare l’appartenenza alle persone e non alle cose. Si nota questo alla fine, quando parla della gestione delle strutture e dei beni economici:
“Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio”.
Non una pastorale di conservazione delle cose, ma al servizio delle persone, che ci fanno uscire dalla nostra auto-referenzialità. La terza domanda riguarda la “ragione del donarsi” e questa ragione è il Regno. La visione – adesso sì – del Regno che propone Francesco ha un orizzonte ampio. È “la terra visitata ogni mattina dalla presenza di Dio”, è il cammino che “la storia umana percorre, nonostante tutti i ritardi, le oscurità e le contraddizioni”; è “la visione che ha di Gesù-uomo” e questo le dà una “gioia che consente di relativizzare tutto il resto”.
Infine il Santo Padre spiega che ha “delineato” la triplice appartenenza che ci costituisce come sacerdoti: l’appartenenza al Signore che assaporiamo, l’appartenenza alla Chiesa, il nostro bene posseduto, e l’appartenenza al Regno, come orizzonte che ci illumina e ci attrae. Questa triplice appartenenza “è un tesoro in vasi di creta e va custodita e promossa”.
La terza chiave di lettura del discorso mira a cercare
la conversione del nostro modo di ragionare.
Questa conversione, che porta a ragionare partendo dalla visione dell’uomo che ha Gesù, richiede un cambiamento nel protagonismo piuttosto che nei concetti. Se torniamo all’inizio del discorso, vediamo che egli colloca il nostro sguardo “nella giusta luce” per contemplare la forma autentica del sacerdote: è lo Spirito, la cui forza deve essere custodita. Porsi in un atteggiamento di ascolto significa lasciare che lo Spirito, che è protagonista nella storia della Chiesa, sia anche protagonista del desiderato rinnovamento del clero. Un rinnovamento che ha anche una componente generazionale, come ha osservato il Santo Padre all’inizio, chiedendo, con gioia, il numero di quelli nuovi (più di 36), perché si sentiva nell’aula “il profumo di crisma” dei vescovi recentemente ordinati.
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