Quello che nei giorni scorsi i sindaci di Bari, Lecce, Catania, Ascoli Piceno, Chieti, Reggio Calabria, Monza e Siena (l’elenco continua a crescere) hanno denunciato è la difficoltà del livello di governo più vicino al cittadino e, pertanto, più esposto sul territorio a coniugare buona amministrazione e rispetto delle regole. Si tratta di un appello bipartisan che ha acceso i riflettori sulle minacce, aggressioni e intimidazioni che, purtroppo senza distinzioni tra Nord e Sud, i primi cittadini e le loro amministrazioni si trovano sempre più frequentemente a dover subire.
Occorre essere chiari su un punto.
Il rispetto delle regole, espressione ben più ampia dello stesso concetto di legalità, non è uno dei punti di forza della nostra attuale cornice istituzionale.
Ne abbiamo innumerevoli esempi che interessano tutti i livelli: dall’onnipresente diabolica tentazione di sforare i vincoli del patto di stabilità, all’evasione fiscale fino alla generale riluttanza nei confronti di qualsivoglia barlume di meritocrazia.
L’assenza di questi anticorpi naturali, evidentemente, ci espone – specie laddove la politica e l’amministrazione sono più a contatto con l’esterno – a rischi come la corruzione, la connivenza con la criminalità organizzata, la “cattura” dei nostri regolatori da parte di lobby e interessi particolari. In questo contesto, ciò che colpisce perché paradossale, è che proprio chi si sforza di fare il proprio dovere, di far rispettare le regole o di innovare promuovendo la concorrenza, introducendo requisiti più stringenti per il rilascio delle autorizzazioni, innalzando gli standard per l’erogazione dei servizi pubblici, o semplicemente introducendo controlli o regolamentando le attività economiche ed edilizie, finisce per l’essere etichettato come un alieno, un sognatore, un disadattato e alla fine rinuncia.
È la più classica delle situazioni per la cui rappresentazione si può ricorrere alla simbologia del serpente che si morde la coda. Un fenomeno che interessa le amministrazioni periferiche, più direttamente a contatto con la società civile, e quelle centrali.
Quello delle istituzioni estrattive è un cancro che via via svilisce il perseguimento del bene comune.
Esso, infatti, rinvia proprio al rispetto delle regole affinché la libera azione della società civile, combinata con quella delle istituzioni, inquadrate all’interno di un solido contesto giuridico, il cui centro è etico e religioso, permetta il raggiungimento di quel bene, nello stesso tempo “di tutti e di ciascuno”, che è il bene comune.
Essere dalla parte del bene comune richiede perciò, quale suo imprescindibile corollario, essere dalla parte del rispetto delle regole e, quindi, della legalità.
Su questa stessa idea di libertà – che chiamiamo “liberalismo delle regole” – si è soffermato anche papa Francesco in occasione della consegna del Premio Carlo Magno laddove ha rivolto all’Europa un invito a riscoprire se stessa ripartendo da quell’umanesimo basato sulle capacità “di integrare”, “di dialogare”, “di generare” che è iscritto nel nostro codice genetico. Il Pontefice, richiamando l’insegnamento dei suoi predecessori, ha così puntato il dito contro quell’“economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere i profitti”, e che è alla base dei tanti episodi di cattiva amministrazione e sperpero del denaro pubblico che affliggono il nostro Paese, contrapponendola all’economia sociale di mercato e alla sua proposta economico-istituzionale che, fatta di riferimenti culturali, etici e giuridici, è capace di generare inclusione sociale ed equità.
Ai sindaci e a tutti coloro che operano all’interno della pubblica amministrazione va perciò il nostro pieno sostegno e un invito a resistere, a non cedere alle sirene della corruzione, alle minacce e alle intimidazioni rinunciando a promuovere dal basso quella trasformazione in chiave inclusiva della nostra cornice istituzionale. Nello stesso tempo, dalle amministrazioni centrali dobbiamo esigere che questo processo sia accompagnato e favorito da un radicale salto di qualità dell’azione politica.
Se però la storia ci ha insegnato qualcosa, penso per esempio a testimonianze di vita come quella di Giorgio Ambrosoli, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non possiamo limitarci a delegare ad altri né a lasciare soli i nostri eroi. Perché il bene comune richiede a ciascuno, nel proprio posto e con le proprie possibilità, di dare se stessi non come eroi ma nella semplicità delle nostre quotidiane esistenze.