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Fermare il consumo di suolo non è solo una questione edilizia, ma un diverso modello di vita in città e paesi

Di Luigi Crimella

“Stop al cemento entro il 2050”: è stato questo uno dei titoli di giornale che la scorsa settimana ha accompagnato la notizia dell’approvazione, da parte della Camera dei Deputati, del disegno di legge che intende azzerare, entro la metà di questo secolo, il “consumo di suolo” in Italia. La discussione del provvedimento ora passerà al Senato e non è detto che il percorso sia lineare e pacifico:

accanto ai favorevoli alla difesa totale dei terreni e all’imposizione di norme per il riutilizzo forzato di aree già edificate, ci sono i contrari, in primis il mondo dell’edilizia che vede in arrivo una quasi-minaccia mortale per il settore, o come è stato detto un “esproprio proletario” delle aree edificabili.

In pratica, dicono gli oppositori, se si andasse in questa direzione, sarebbe la fine per circa una metà delle imprese edili, perché un conto è edificare valorizzando terreni ora liberi, un altro invece demolire per poi ricostruire. Con l’abbattimento e ricostruzione, i costi sarebbero inevitabilmente più elevati, sparirebbe la libera disponibilità delle aree e gli attuali proprietari vedrebbero svalutati i propri terreni senza possibilità di disporne liberamente, come invece è possibile ora all’interno dei dettami dei piani regolatori vigenti. In sostanza, si paventa un “dirigismo edilizio” che darebbe un colpo mortale alla libera proprietà (delle aree) e alla libera iniziativa (degli imprenditori). Ma la filosofia che sta dietro a questo decreto si basa su dati molto preoccupanti.
La ricerca dell’Ispra e la crescita esponenziale del “consumo”. Nello studio dal titolo “Il consumo di suolo in Italia”, a cura di Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) come si può constatare accedendo al sito internet http://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/rapporti/Rapporto_218_15.pdf, emerge chenegli ultimi decenni c’è stato un aumento preoccupante dell’uso dei terreni, tra l’altro in modo disordinato e spesso anche pericoloso, come dimostrano i tanti disastri ambientali riscontrati.

Si è passati da un consumo che era al 2,7% negli anni ’50, all’odierno 7%.

Questa percentuale riguarda il cosiddetto consumo “statistico”, cioè calcolando tutta la superficie disponibile, comprese le montagne, i fiumi e laghi ecc. Ma se invece si calcola il suolo consumato in rapporto alle aree effettivamente utilizzabili (pianure e zone di collina) allora il rapporto si impenna. Abbiamo infatti un consumo nazionale che sale al 10,8% medio, con regioni come la Valle d’Aosta che ha già utilizzato il 30,6% delle sue aree utili, Liguria 22,8%, Veneto 14,7%, Campania 17,3%, Emilia 11%, Lombardia 16,3%, Lazio 10%, e – in coda – Basilicata 3,1%. Le province più “consumate” sono Milano col 26,4% e Napoli col 29,5%. Il rapporto indica poi un altro parametro, le zone cosiddette “alterate” per via dell’urbanizzazione selvaggia, dove rimangono sì abbondanti spazi disponibili, ma di scarsa appetibilità edilizia perché inseriti in aree pesantemente o disordinatamente costruite, dove quindi si avverte maggiormente il senso di spreco di terreni non più diversamente utilizzabili, anche perché spesso inquinati. Tutto questo ha indotto la politica (il Pd in particolare) a proporre una legge drastica: la percentuale di tali aree “alterate” e difficilmente recuperabili sarebbe infatti del 55%, e ciò motiverebbe il ricorso a sistemi draconiani di blocco delle costruzioni.
Cosa prevede la legge in discussione. La filosofia del testo approvato alla Camera è di difendere il suolo e le aree agricole, a fronte di una

attività edificatoria che oggi fa scomparire 7 metri quadri al secondo, cioè l’equivalente di 80 campi di calcio al giorno.

La legge parla di spostare l’asse dal “consumo” di terreno libero verso la “rigenerazione urbana” fino allo sbocco finale nel 2050 con il divieto totale di costruire in aree libere. Se la legge passasse, sarebbero esclusi dai vincoli solo le opere infrastrutturali e produttive strategiche, lasciando alle regioni di fissare i criteri e vincoli specifici. Sempre le regioni dovrebbero poi fare censimenti per dare vita a banche dati su edifici e terreni da ripristinare. Ma cosa ne pensano gli esperti e studiosi della materia in ambito cattolico? Lo abbiamo chiesto a Matteo Mascia, coordinatore del progetto “Etica e politiche ambientali” della Fondazione Lanza di Padova, e ad Andrea Masullo, direttore scientifico di Greenaccord. “Il nostro paese ha bisogno di una legge che regoli l’uso del suolo e il suo consumo – spiega Matteo Mascia – visto che in piena crisi, in cui abbiamo avuto moltissime perdite di imprese edili, il consumo di suolo continua ad essere estremamente elevato”. “La legge riconosce al suolo un valore di servizio sistemico – prosegue – fa proprie le conoscenze acquisite come ‘bene comune’, come ha ricordato anche Papa Francesco nell’enciclica ‘Laudato sì’. Per la prima volta il peso dell’uomo nei confronti della natura è talmente forte da mettere a repentaglio gli equilibri ecologici.

Il ritmo di utilizzo del suolo è così accelerato da far prevedere conseguenze alla lunga insostenibili per le persone, in particolare per i poveri”.

Secondo Mascia, quindi, “ci vuole il coraggio di demolire e ricostruire, perchè se continuassimo così andremmo ad intaccare le opportunità delle future generazioni”.
Fermare la “frenesia produttivista”. Anche Andrea Masullo di Greenaccord vede positivamente questo provvedimento, augurandosi che sia approvato in fretta anche dal Senato. “La frenesia produttivista degli ultimi decenni è messa fortemente in discussione dalla nuova legge. Le città hanno centri storici che sono diventate vetrine per turisti ma che in realtà sono pressoché disabitati. Tutti vanno nelle periferie che si ingrossano con una cementificazione spesso dissennata. Vediamo che sono nate megaperiferie disumane, senza un ‘centro’ di riferimento, con funzione di realtà-dormitorio senza un’anima. Le imprese, del resto, non comprendono che il futuro sta nella riconversione urbana, nel rendere di nuovo abitabili i centri spopolati. Finora si è puntato sulla scelta facile di urbanizzare nuove aree sempre più periferiche e scollegate, ma i risultati si vedono:

sono nati assembramenti edilizi con dei compound per ricchi a volte mischiati a edifici dormitorio per i poveri, il tutto senza piazze e centri di aggregazione sociale se si escludono le parrocchie, che da sole e con difficoltà svolgono questo compito di fare ‘comunità’ in zone anonime e lontane da tutto”.

Secondo Masullo oggi occorre puntare a “recuperare i centri urbani e insieme recuperare anche le grandi periferie, creando città ‘policentriche’, cioè dove ci sia una molteplicità di luoghi di incontro”. Staremo a vedere come evolverà in Parlamento il dibattito su questa legge, che – come si comprende – non riguarda soltanto l’edilizia ma una intera concezione del vivere.

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