Affrontare le cause dei conflitti, delle calamità naturali e dei fenomeni che provocano le emergenze, tra cui la fuga delle persone dai loro Paesi, anziché dover distribuire poi gli aiuti umanitari. Sono parole di buon senso quelle che arrivano da Istanbul, dove è in corso la due giorni del World humanitarian summit voluto per la prima volta dalle Nazioni Unite, con la partecipazione di oltre 5mila rappresentanti di governi, agenzie umanitarie, Organizzazioni non governative. A parlare è il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila e presidente di Caritas internationalis, intervenuto ieri alla sessione speciale del Summit dedicata alle organizzazioni confessionali. Nella stessa giornata ha tenuto una relazione anche il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, invitando le nazioni a “non fare affidamento in primo luogo a soluzioni militari quanto piuttosto investire nello sviluppo, essenziale alla pace e alla sicurezza. Costruire una pace durevole e la sicurezza significa perseguire uno sviluppo umano integrale così come affrontare le cause che sono alle radici del conflitto”. Papa Francesco ha inviato ieri pomeriggio un messaggio al Summit: “Oggi vorrei proporre una sfida a questo Vertice: ascoltiamo il grido delle vittime e di coloro che soffrono. Lasciamo che ci diano una lezione di umanità. Cambiamo i nostri stili di vita, le politiche, le scelte economiche, i comportamenti e gli atteggiamenti di superiorità culturale”. Nel mondo oltre 130 milioni di persone ricevono oggi aiuti umanitari, una cifra record.
Quale sarà il contributo della Caritas al Summit?
Come Caritas, a livello internazionale e locale, siamo consapevoli della grandezza e serietà della questione. Spesso si parla di numeri, di statistiche ma il lavoro della Caritas offre un volto umano al problema: questo è il nostro contributo.
Cosa chiedete ai rappresentanti delle nazioni qui riuniti?
Primo: riscoprire il volto umano del problema. Secondo: rivolgiamo un appello alla comunità internazionale, in particolare ai politici, perché affrontino le cause dei conflitti e delle calamità che provocano le emergenze umanitarie. Terzo: osservare e rispettare il principio di sussidiarietà; a volte le agenzie umanitarie internazionali tendono a controllare l’assistenza e ad imporre alla base un concetto di sviluppo calato dall’alto. Come Caritas collaboriamo a livello di base e chiediamo alle agenzie internazionali di rispettare la saggezza, l’esperienza e la conoscenza delle culture dei popoli e delle organizzazioni locali.
Ci può fare un esempio concreto di cosa significhi rispettare il principio di sussidarietà negli aiuti umanitari?
Nelle Filippine, ad esempio, ci sono almeno quindici tifoni l’anno. Anche se siamo quasi abituati, ogni tifone o terremoto è unico e la distruzione va oltre ogni immaginazione. Siamo commossi dalla solidarietà e dagli aiuti internazionali; però può succedere, come accaduto in un piccolo villaggio nell’isola di Leyte, che quando arrivano le agenzie internazionali, con buona volontà senza dubbio, offrono aiuti estranei alla cultura e alla vita quotidiana delle comunità povere. Basterebbe invece rivolgere una semplice domanda alla popolazione: di cosa avete bisogno? Manca questo tipo di comunicazione. Durante l’assistenza umanitaria non dobbiamo mai dimenticare che l’aiuto primario riguarda il recupero della dignità. E’ necessario rispettare la saggezza dei popoli perché la ricostruzione sia adattata ad ogni cultura.
Le organizzazioni umanitarie confessionali chiedono anche maggiori risorse?
Sì, lanciamo anche un appello per maggiori aiuti economici alle organizzazioni ecclesiali e locali. Oggi qualcosa arriva ma in modo molto limitato. Servirebbero risorse per aiutare in maniera più capillare.
Tra le grandi emergenze umanitarie c’è quella dei migranti, “mai così tanti dalla fine della seconda guerra mondiale”, ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, aprendo il Summit. Cosa chiede la Caritas in proposito?
Chiediamo ai capi di governo di affrontare con sincerità le cause delle migrazioni, esercitando la volontà politica a livello regionale e internazionale. Purtroppo c’è uno squilibrio tra le risorse destinate alle armi e all’assistenza umanitaria. E’ più importante, invece, investire nell’educazione, nella pace, nello sviluppo, invece di aspettare un conflitto per distribuire poi gli aiuti umanitari.
Eppure l’Europa alza muri, chiude frontiere e respinge i migranti. Cosa ne pensa?
E’ una situazione molto complessa. Ho ascoltato tanti europei, durante colloqui informali, chiedersi dove sia andata a finire l’umanità e la coscienza in Europa. Vediamo un fratello o una sorella nel profugo? Dov’è il progresso umano senza la fraternità, la solidarietà? Queste domande sono oggi per noi come un esame di coscienza.
Cosa si aspetta da questo Summit?
Non ci aspettiamo tutte le soluzioni ma il Summit è importante per dialogare e ascoltarci. E’ un grande passo in avanti. Speriamo che alle parole seguano i fatti.