Dopo l’economia globale, dopo la comunicazione senza frontiere di internet, siamo alla globalizzazione della politica. Tanto che le elezioni della “piccola” Austria finiscono sotto i riflettori di tutta Europa e di mezzo mondo. Perché le elezioni presidenziali, che hanno visto prevalere il candidato indipendente Alexander Van der Bellen, già leader dei Verdi, sul favorito Norbert Hofer, esponente del Partito della Libertà, hanno tenuto l’Ue col fiato sospeso, nell’attesa di sapere se l’Austria, Paese a forte tradizione democratica, potesse scegliere un Presidente federale antieuropeista, dai forti tratti xenofobi.
Questa volta è toccato all’Austria, ma la stessa attenzione generale si era ad esempio riscontrata per votazioni recenti – regionali o nazionali, politiche o presidenziali – in Grecia, Francia, Scozia, Spagna, Polonia, Germania… E già si guarda, con preoccupazione che cresce a ritmo esponenziale, al referendum inglese del 23 giugno. Per non parlare dell’altra sponda dell’Atlantico, dove i sondaggi danno in testa un personaggio come Donald Trump.Il mondo è interdipendente, e le grandi sfide di questa epoca – fra cui la crisi economica generatasi negli Usa e le migrazioni in partenza da Africa e Medio Oriente – si riversano sull’Europa, ne scuotono le coscienze, mentre si moltiplicano nell’opinione pubblica paure e chiusurenon di rado cavalcate da classi politiche miopi che presentano risposte nazionaliste, semplicistiche e inconcludenti.
Come se alzare muri o chiudere gli occhi di fronte alle dinamiche planetarie possa preservare il giardino di casa dal corso della Storia.
Tornando all’Austria, Van der Bellen ha raggiunto al ballottaggio il 50,3 per cento, superando l’avversario di sole 31mila preferenze. Il voto per corrispondenza (900mila cittadini, su 6 milioni di aventi diritto, hanno utilizzato questo sistema di voto; tra loro i residenti all’estero) ha fatto la differenza. È chiaro che il Paese è diviso in due, come ha subito saggiamente sottolineato il neo Presidente: “Si è parlato molto di polarizzazione, ma io e Hofer – ha affermato Van der Bellen – siamo semplicemente le due metà che assieme formano questo grande Paese. Nessuna di queste due metà è più oppure meno importante dell’altra”. Promettendo, di conseguenza, un impegno, nell’ambito delle sue competenze, per ricucire lo strappo che divide la società austriaca, profondamente segnata dal tema migratorio, strumentalizzato in campagna elettorale dalla destra di Hofer.
È lo stesso richiamo giunto, appena noti i risultati elettorali, dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza episcopale: “Il nuovo Presidente deve cercare di unire il Paese”, rappresentando “ciò che unisce più di quello che divide”, e confermando l’Austria “un Paese stabile, libero e prospero”, aperto all’“Europa e al mondo”.
A Vienna rimangono in sospeso alcune domande di fondo: per ora ha prevalso, di stretta misura, l’Austria europeista, ma domani, quando si voterà per il rinnovo del parlamento e per la ben più rilevante carica di cancelliere, come si orienterà il voto popolare? Quale fine faranno i partiti tradizionali – popolari e socialisti – che dal dopoguerra hanno guidato la nazione alpina e ora sono stati estromessi dal ballottaggio delle presidenziali? Più in generale: quale classe dirigente rappresenta oggi il Paese (con un’economa forte, la disoccupazione ai minimi termini e un solido stato sociale) e ne sa cogliere le istanze più vere?
Un ulteriore interrogativo si pone rispetto alla rilevanza del cattolicesimo, ancora radicato e diffuso da Innsbruck alla capitale, da Salisburgo a Graz.
A questo proposito Gerda Schaffelhofer, presidente della Katholischen Aktion Österreich (Azione cattolica austriaca), ha dichiarato che “da un punto di vista cattolico le elezioni presidenziali sono state un disastro”, se si considera che i voti al candidato populista “sono giunti soprattutto dalle zone rurali, notoriamente quelle più legate alla Chiesa”. Un’affermazione da approfondire con una rilettura attenta dei risultati, benché si sia oggettivamente di fronte un Paese ad ampia maggioranza cristiana in cui la metà dell’elettorato ha mostrato di rincorrere le lusinghe xenofobe e le chiusure nazionaliste.
Ma allora le domande che oggi attraversano l’Austria e il cristianesimo austriaco non dovrebbero interrogare anche altri Paesi europei – dalla Spagna all’Italia, dal Regno Unito all’Europa centro-orientale, dalla Germania ai Paesi balcanici o nordici – con le rispettive comunità cattoliche, evangeliche e ortodosse?