Sono sempre più i lavoratori sfruttati nelle campagne italiane. Numeri impressionanti, nell’ordine delle 400mila unità. L’80% sono stranieri e almeno 100mila sono in disagio abitativo. Dai caporali, schiavisti camuffati da intermediari del lavoro, ricevono circa due euro all’ora per 12 ore di lavoro. Ma con quei soldi devono provvedere al trasporto verso il luogo di lavoro, comprare acqua e cibo, pagare l’affitto degli alloggi e i medicinali. Quei farmaci a volte inutili, visto che le condizioni di lavoro disumane dei braccianti agricoli portano persino alla morte. Ciò che è accaduto nel luglio 2015 a Paola Clemente, 49enne bracciante di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, il cui cuore ha ceduto all’enorme fatica del lavoro di acinellatura sotto i quaranta gradi delle campagne di Andria. Ciò che è successo due settimane dopo anche a Mohamed, 47enne sudanese, nei campi salentini di Nardò. Vittime del caporalato, oggi nascosto nella forma legale di alcune agenzie interinali, su cui ha puntato i riflettori Enrica Simonetti, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno (quotidiano di Puglia e Basilicata) che nel suo libro “Morire come schiavi” (editore Imprimatur) ha raccontato il volto inumano, illegale, oscuro e drammatico dei braccianti agricoli, spesso stranieri irregolari e vittime della povertà. “Ciò che spaventa – dice l’autrice – è che la crisi porta tutti ad accettare tutto, a considerare che non ci può essere un modo diverso di lavorare perché la logica del profitto non finisce mai”.
Una giustizia a metà. Il libro di Enrica Simonetti è stato definito un docu-romanzo. Un racconto che mostra le schiene piegate dei lavoratori immersi nei campi arati ma che diventa terribilmente reale quando l’autrice descrive le condizioni di vita inimmaginabili dei braccianti agricoli.
“C’è una giustizia a metà. Noi pensiamo di avere un mondo totalmente aperto, con un click ci sentiamo ovunque. Invece siamo molto distanti l’uno dall’altro. Sono partita dalla vicenda di Paola Clemente, una donna che faceva 200km al giorno per lavorare e guadagnare due euro all’ora, reclutata attraverso un’agenzia interinale”.
Un viaggio cominciato in redazione con la notizia di un tragico evento di cronaca, apparentemente isolato. “Invece – continua – si è riscoperta una logica del profitto spersonalizzante, che non punta più sull’umanità che dovrebbe guidare le nostre azioni”. Così, ancora una volta, per gli sfruttati la giustizia è una chimera: “Molti dei lavoratori stranieri arrivano in Italia e inconsapevolmente hanno già accumulato 500 euro di debito perché il caporale gli ha addebitato l’alloggio e il trasporto. È terrificante. Così nascono i ‘ghetti’, ex fabbriche abbandonate dove vengono alloggiati i lavoratori stagionali, accalcati in piccoli edifici senza servizi igienici e dove si sviluppano ulteriori commerci come il pagamento di 50 centesimi per far caricare il cellulare”.
Lottare contro lo sfruttamento. Un viaggio “in the fields” per tutto il Sud, seguendo l’estate del caporalato da Foggia a Brindisi, dalla Calabria a Metaponto. “Un racconto che mi ha mostrato tutta l’assenza di etica personale. C’è quella sopraffazione del guadagno come voglia di superare ogni confine umano pur di avere la massima resa. Nel mondo del caporalato ci sono piccole e grandi aziende che hanno difficoltà a corrispondere un equo compenso ai lavoratori. Dall’altra, però, c’è lo Stato che ha le sue leggi, ma che non sempre riesce a farle eseguire”.
Insomma si fa presto, in assenza di controlli, a rendere schiavo qualcuno.
Ma c’è un’impotenza che la giornalista coglie: “Ogni giorno scriviamo delle tragedie che colpiscono il mondo. Ma il giornalista si sente impotente con il proprio articolo. Noi dobbiamo scrivere sempre la verità e raccontare alla gente quello che non vede così da poter condividere fatti e riflessioni senza che la cosa possa essere fatta cadere nel dimenticatoio”. C’è però l’unione delle forze perché l’attenzione destata dal giornalista è accompagnata dal gran lavoro delle associazioni di volontariato: “Ce ne sono tante – osserva Simonetti – e fanno tanto. Nelle realtà che ho conosciuto ci sono tantissime associazioni che si danno da fare per accogliere e seguire i lavoratori sfruttati. Ma soprattutto un grande lavoro è compiuto sulla loro coscienza. I braccianti devono sapere a cosa vanno in contro e cosa firmano. Perché il trucco dei cattivi datori è quello di dire ‘se ti fermano devi dire che è il tuo primo giorno di lavoro’ per sfuggire a controlli più approfonditi e per evitare di pagare contributi. È un meccanismo talmente rodato che la burocrazia italiana difficilmente lo contrasta”. Le storie di Paola Clemente e Mohamed insegnano che lo schiavismo esiste ancora. Ma anche che una “campagna virtuosa” può esserci. Serve solo comprendere che lo Stato e la società civile, se si alleano e si attivano, possono garantire il diritto alla dignità della vita.
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