SANT’EGIDIO ALLA VIBRATA – Da Sant’Egidio a Roma e poi da Roma a Sant’Egidio. Questa finora il percorso della dottoressa Virginia Maloni del Centro Clinico Psicologia e Psicoterapia situato in via Roma a Sant’Egidio alla Vibrata. Abbiamo chiesto a lei, giovane psicologa e psicoterapeuta nonché autrice di vari libri, di presentarci la sua professione e di raccontarci dal suo punto di vista i benefici della psicologia.
Virginia, quando hai capito che saresti diventata una psicologa?
Questa professione è stata sempre presente ed evidente in me, fin da piccola ma, in realtà, erano più gli altri a riconoscermi questa propensione: ero quella, infatti, che amava stava sempre in gruppo e che cercava di risolvere un po’ le situazioni e le dinamiche che si creavano. Non ho mai avuto pregiudizi e mi piaceva stare con tante persone, anche di età diverse. Questo già andava un po’ a scontrarsi con le dinamiche territoriali tipiche di un piccolo centro, che spesso è pronto ad etichettarti e giudicarti. Io, invece, non mi sono mai posta questo problema e, anche rischiando, sono sempre andata avanti senza pensare al giudizio altrui. Fare questa professione, infatti, significa proprio “abbassare il giudizio” perché per noi sono tutti uguali: anche quando ci troviamo con persone che la pensano diversamente da noi siamo chiamati a stringere i denti e accogliere chi è “lontano” da noi.
Quando hai iniziato ad esercitare questa professione?
Tutto è cominciato nel 2005. Inizialmente mi ero focalizzata sulla psicologia forense, poi man mano mi sono specializzata anche nella psicoterapia di coppia e soprattutto di gruppo. Questo mi ha portato ad evolvermi sempre di più sia nell’ambito sia giuridico sia terapeutico e, dopo aver lavorato a Roma per tanti anni, sono tornata nel mio paese e ho aperto un centro di psicologia, nel quale insieme a me lavorano altri professionisti di diversi settori.
Negli anni ti sei dunque specializzata nella terapia di gruppo. Come mai questa evoluzione? E quali effetti ha avuto su di te e sul rapporto con i pazienti?
Nel mio percorso di crescita la terapia di gruppo mi ha insegnato molto perché prima di essere terapeuti noi dobbiamo fare l’analisi su noi stessi e soprattutto confrontarci con l’altro. All’inizio questo è stato molto difficile perché un conto è il desiderio di esercitare questa professione, un conto invece è scontrarsi ogni giorno con chi ti mette in discussione, con pazienti che magari possono affrontare argomenti che sono prettamente anche tuoi e che, se tu non hai elaborato o risolto, ti mettono in qualche modo in crisi.
Con la terapia di gruppo l’evoluzione del paziente si rafforza e questo significa che, se nella terapia individuale si elaborano determinati problemi, una volta stabilita la fiducia di base, il passo successivo può essere quello di inserire il paziente nella terapia di gruppo, perché quest’ultimo in qualche modo rappresenta la società, la comunità.
Quindi la terapia di gruppo è uno step successivo e non una vera e propria alternativa alla terapia individuale.
Proprio così, di solito è il passo successivo. Spesso, infatti, chi inizia la terapia di gruppo è una persona che ha già fatto un percorso personale o comunque una persona che noi valutiamo possedere una personalità in grado di confrontarsi con gli altri: deve essere una persona riservata e pronta ad accogliere la differenza altrui senza disturbare ciò che è stato fatto finora. Solitamente quindi è così, anche se non è una regola ferrea. Ci sono poi casi e casi, come ad esempio delle persone che, anche se vengono a chiedere un percorso personale, hanno invece più bisogno di un confronto con gli altri perché magari nella terapia individuale non farebbero altro che confermare quelle che sono le loro convinzioni e che hanno invece bisogno, a nostro parer, di sbattersi con l’opinione di un campione di persone. Nel gruppo infatti si creano delle dinamiche anche tra persone estranee che diventano poi molto significative: se cioè due sconosciuti finiscono per discutere è perché tra loro sono emerse delle dinamiche che le rimandano a qualcos’altro.
Quali sono i pro e i contro di questo mestiere?
I pro e i contro sono collegati al fatto che si entra veramente in relazione con l’altro e che si guardano tantissimi aspetti che vuoi o non vuoi ti fanno sentire la relazione in maniera più significativa.
Innanzitutto questo è un lavoro sempre in continua evoluzione perché anche tu, psicologo, negli anni cambi: succedono delle cose nella tua vita come succedono nella vita degli altri. E’ chiaro che è difficile mantenere il confine tra ciò che è la vita privata e ciò che è la vita relativa perché noi alla fine lavoriamo con la “relazione”. Però in questo lavoro devi sempre cercare di gestire al meglio quello che è la tua relazione di vita personale separandola da quella del paziente.
Per me, però, è il lavoro più bello del mondo, è quello che io volevo fortemente. E per portarlo avanti, anche viste le difficoltà odierne, è necessario innanzitutto avere una forte passione, essere sempre pronti ad aggiornarsi senza finire con il chiudersi nella propria stanzetta terapeutica.
Questa professione è poi come una sorta di investimento che la persona che sta al tuo fianco capisce fin dall’inizio: i contro chiaramente sono che “vedi” troppe cose o che si diventa anche poco tolleranti verso la chiusura mentale, cioè la capisci, la comprendi, cerchi di far crescere le persone ma facendo lo psicologo ti rendi davvero conto di quanto sia effettivamente importante aprirsi e far aprire le persone.
A tuo parere oggi che ruolo occupa la psicologia?
Io credo che sia, purtroppo, una professione non ancora ben radicata a livello culturale e non ben compresa da tutti: attorno ad essa ci sono ancora tanti, troppi tabù. Quando organizzo degli eventi, infatti, lo faccio anche e soprattutto per far capire che la psciologia non è un mostro, ma un supporto e un accompagnamento: tutti nella vita possono attraversare un periodo difficile e/o soprattutto tutti possono sentirsi sotto stress. Qui da noi, infatti, vengono tante persone che lavorano nelle aziende e che hanno anche solo bisogno di consigli, di essere motivati, di scaricare la tensione, di capire le dinamiche dei loro dipendenti.
In base alla tua esperienza, qual è il disturbo più frequente negli ultimi anni?
Per quanto mi riguarda, io seguo molte persone che hanno problemi relazionali, soprattutto di coppia, tutti dovuti ad una mancanza di comunicazione. Questo deriva dal fatto che si incontrano delle personalità molto labili che noi chiamiamo “borderline”, personalità cioè un po’ al confine che per esempio decidono di intraprendere una relazione con un’altra persona senza capire veramente chi hanno di fronte e solo per cercare di riempire i loro bisogni. Col tempo, però, questo problema finisce per emergere perché le personalità borderline sono molto istintive e carnevalesche, destinate a fare alla lunga scelte sbagliate.
Per quanto riguarda, invece, gli adolescenti si registra una forte aggressività nei comportamenti.
Da psicologa hai anche scritto diversi libri. Vuoi presentarceli brevemente?
Certo. Il libro “Patologia della coppia” parla delle relazioni conflittuali di coppie che scoppiano perché non hanno radici ben stabili, coppie nelle quali l’altro serve solo per non stare soli o per compensare le proprie fragilità. A volte, infatti, la relazione a due non è una vera e propria relazione ma piuttosto un dire a se stessi “non sono solo”. Questo tipo di rapporto, però, è infruttuoso e non può costruire niente. La coppia, infatti, non è solo divertimento, stare insieme, erotismo ecc.…ma anche e soprattutto sacrificio, affetto che si trasforma nel tempo e desiderio di voler lasciare qualcosa di se stessi per entrare nella coppia. Se questa, poi, si rivela capace di resistere ai cambiamenti, allora può andare avanti altrimenti, come spesso oggi accade, si verifica la tendenza di tornare nella propria famiglia d’origine, per continuare a ad essere figli in quel guscio, oggi più che mai, forte e inossidabile.
L’altro libro si intitola invece “Il mio nome è donna” ed è stato scritto con altri autori. Il suo tema centrale è la violenza di genere: molte volte, infatti, la donna finisce in situazioni di violenza per una mancata comprensione e percezione dell’altro proprio perché spesso è una persona debole, che affida completamente la sua vita e la sua identità all’uomo, in molti casi proprio ad un narcisista. E quando una donna non reagisce non è perché non vuole ma perché non ce la fa: l’altro rappresenta tutta la sua vita e purtroppo, quando si accorge che l’uomo che ha affianco è un uomo violento, è già troppo tardi.
Il libro sulla sindrome di Munchausen (o sindrome da ospedale), invece, tratta della patologia di quelle persone che, pur di essere accudite e biasimate dagli altri, fingono una malattia. Noi conosciamo anche la “sindrome di Munchausen per procura” dove addirittura la mamma procura una malattia al proprio figlio solo per essere compatita dagli altri e per stare al centro dell’attenzione. Questa è una patologia particolarmente difficile da riconoscere e che richiede un’acuta osservazione clinica.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il mio desiderio è di riuscire ad accostare sempre più la psicologia ad altre figure professionali, collaborare quindi con altre istituzioni al fine di organizzare delle iniziative nelle quali emerga che la psicologia non è una disciplina di cui avere paura ma che, al contrario, può essere di grande aiuto per tutti.