ZENIT di Salvatore Cernuzio
GERMANIA – L’anno scorso il Vaticano, ora la Germania. La tensione è alle stelle tra Ankara e Berlino, dopo il voto di ieri del Bundestag di una risoluzione nella quale si definisce “genocidio” il massacro degli armeni avvenuto un secolo fa, tra il 1915 e il 1916, sotto l’Impero ottomano. I membri del Parlamento federale tedesco hanno votato quasi all’unanimità – un solo voto contrario e un astenuto – la risoluzione presentata dall’Unione cristiano-democratica (il partito della cancelliera Angela Merkel), insieme ai socialdemocratici e ai verdi che riconosce le responsabilità della Germania nello sterminio che provocò circa un milione e mezzo di morti. Durante la Prima Guerra mondiale i tedeschi erano infatti alleati ai turchi.
La reazione di Ankara, come previsto, non si è fatta attendere. La prima mossa – come già avvenuto nel “caso” vaticano – è stata di richiamare il proprio ambasciatore in Germania, Hüseyin Avni Karslıoğlu. È solo “un primo passo” ha minacciato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan dal Kenya, dove si trovava al momento del voto dei deputati tedeschi; altri “passi” saranno decisi al rientro in patria.
Il voto di Berlino “compromette seriamente i rapporti turco-tedeschi” ha affermato infatti Erdoğan. Parole alleggerite dal premier Binali Yildırım, che ha confermato che le relazioni tra i due paesi “non saranno deteriorate” ma che sono previste “misure contro la Germania”. Decisamente più violente le reazioni di manifestanti nazionalisti che in serata – alcuni vestiti pure con i costumi ottomani – hanno manifestato davanti al consolato tedesco a Istanbul, agitando cartelli e striscioni di con scritte tipo: “Il genocidio armeno, la più grande menzogna da cent’anni a questa parte”.
Da Yerevan, invece, il ministro degli Esteri armeno Eduard Nalbandyan esprime tutta la sua soddisfazione per il fatto che “Germania e Austria riconoscano oggi la loro parte di responsabilità nel genocidio degli armeni”, mentre “le autorità turche continuano ostinatamente a negare un fatto innegabile”. Yerevan, ha aggiunto Nalbandyan in una nota ufficiale, attende da oltre un secolo che “venga fatta luce” sul Metz Yeghern, il Grande Male, come gli armeni chiamano lo sterminio.
Sulla vicenda si è espresso anche il cardinale Reinhard Marx, presidente dei vescovi tedeschi, che in una nota – pubblicata dal Sir – afferma: “Guardare al passato non deve mai essere un modo per regolare vecchi conti e accusare altre nazioni”, ma deve “aprire un futuro di cooperazione, guardando oltre le tombe delle colpe”. “È una questione di onestà – aggiunge il porporato – non lasciare dubbi sul fatto che quel ‘Grande Male’ non sia uno degli eccessi connessi con la guerra, ma uno sterminio sistematico, un genocidio”. Pertanto “è un dovere verso i discendenti di quel popolo” e, al contempo, un aiuto anche ai tedeschi che, “vista la loro storia nella prima metà del XX secolo, possono meno di tutti ergersi a insegnanti per altri popoli”.
La diatriba turco-tedesca avviene, tra l’altro, a neanche un mese dal viaggio di Papa Francesco in Armenia, in programma dal 24 al 26 giugno, durante cui è prevista anche una tappa al Memoriale del genocidio. Lo stesso Bergoglio, nell’aprile di un anno fa, era stato investito dall’ira turca, ‘colpevole’ di aver pronunciato la parola tabù durante la Messa in Vaticano con gli armeni per il centenario del Grande Male.
“La nostra umanità – aveva detto il Pontefice – ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come «il primo genocidio del XX secolo»: essa ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana –, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi”.
Anche in quel caso il governo di Ankara aveva convocato il nunzio apostolico, mons. Antonio Lucibello, per manifestare il proprio disappunto sulle dichiarazioni del Papa, che peraltro erano una citazione testuale della Dichiarazione comune firmata da Giovanni Paolo II e Karekin II a Etchmiadzin nel 2001. Anche l’ambasciatore turco presso la Santa Sede, Mehmet Pacaci, era stato richiamato per delle consultazioni. E la stessa ambasciata aveva definito “inaccettabile” il fatto che il Pontefice parlasse di “genocidio”.
Il copione, quindi, si ripete. Dopo un secolo, la Turchia si ostina a perseguire un atteggiamento negazionista verso la strage che, cent’anni fa, sterminò un milione e mezzo di uomini, donne, anziani, bambini, e minaccia pure i paesi che portano avanti mozioni parlamentari tese a ristabilire la verità storica.
Ankara non nega il massacro ma afferma che la causa fu una sanguinosa guerra civile che uccise circa 500mila armeni e altrettanti turchi, in quanto i primi si erano ribellati contro i governanti ottomani appoggiando le truppe russe che invadevano l’impero in piena Prima Guerra mondiale. A decimare la popolazione sarebbe stata poi una carestia e delle conseguenti epidemie. Le ragioni del negazionismo sono storiche, politiche e soprattutto economiche, in quanto riconoscerne la responsabilità del massacro significherebbe di fatto aprire la complicata questione dei risarcimenti ai familiari delle vittime, che da sempre, seppur senza strumenti o sostegni, chiedono giustizia. Nessun tribunale o corte internazionale si è quindi sbilanciato finora sulla questione, e quella orribile pagina storica viene bollata come una “falsificazione”.
La verità, tuttavia, inizia piano piano a riemergere grazie anche alla Santa Sede che l’anno scorso ha raccolto, catalogato e pubblicato gli archivi dell’epoca (1914-1920), mettendoli a disposizione degli studiosi del mondo. Tra questi anche la giornalista de Il Messaggero Franca Giansoldati che lo scorso anno, dopo vari studi e ricerche tra i faldoni vaticani, ha pubblicato con la Salerno editrice La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno, un’accurata ed appassionata ricostruzione di quel dramma che, dopo un secolo, rimane ancora un buco nella storia.