Ha l’abitudine di parlar chiaro, è preoccupato per il futuro delle giovani generazioni, crede nella necessità di una vera partecipazione democratica per il bene del Paese. E ritiene che il sindacato abbia ancora un ruolo centrale. Purché sappia rinnovarsi. Marco Bentivogli, 46 anni, originario di Conegliano, dal 2014 è segretario generale dei metalmeccanici della Fim Cisl. Questa settimana presenta il suo nuovo libro e ne anticipa i contenuti al Sir. Il titolo è tutt’altro che scontato: “Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato” (casa editrice Castelvecchi).
Bentivogli, lei parte da una denuncia riguardante i luoghi comuni “sul” sindacato e i sindacalisti: privilegiati che difendono altri privilegiati, tutelano i fannulloni, difendono solo le pensioni di anzianità… Cosa c’è di vero e cosa, invece, è lontano dalla realtà?
Il libro comincia appunto con ciò che si dice sul sindacato nei bar, sugli autobus, a volte anche su una parte di media, purtroppo. Il sindacato in alcune occasioni ha avuto dei limiti, quando non è stato capace di discernere i diritti dagli abusi dei diritti o i laboriosi dai fannulloni, di anticipare i cambiamenti o di farsene promotore.C’è una parte dogmatica del sindacato, attardata in battaglie ideologiche, che si rifiuta di ascoltare la richiesta di innovazione che sale dagli stessi lavoratori.Oppure si è parlato spesso di “giovani”, ma si è fatto troppo poco per loro. Questi limiti hanno alimentato un’immagine tanto conservatrice quanto ideologica del sindacato che però non rende giustizia al lavoro di tantissimi delegati, operatori che sul campo, quotidianamente, stanno accanto alle persone. Durante la crisi ci sono stati 300mila licenziamenti, solo per citare il mio settore. Con l’attività contrattuale incessante e determinata di tanti di noi, abbiamo salvato più di 100mila posti e convinto numerose aziende a tornare a investire nel nostro Paese. I lavoratori ce lo hanno riconosciuto: lo dimostra anche il trend positivo di iscrizioni della Fim Cisl, da 12 anni in crescita costante, segno che si sono sentiti meno soli grazie a noi.
Poi non trascura i luoghi comuni “dentro” il sindacato, le vecchie parole d’ordine: “siamo sotto ricatto”, “macelleria sociale”, “compromesso al ribasso”. Qual è “il sindacato di cui non si può fare a meno” oggi?
Il sindacato di cui non si può fare a meno è quello che esce dalle “retoriche morte”, come le ho definite, e da dogmi ideologici per rappresentare le persone e la realtà. Cioè un sindacato che ascolta, che studia, che fa ricerca (come ha fatto la Fim con la grande “inchiesta operaia” sul sistema World Class Manufacturing in Fiat Chrysler, intervistando oltre 5mila lavoratori), e che – sulla base di questi approfondimenti – propone soluzioni innovative.Il sindacato di cui non si può fare a meno è anche quello che sta lontano dalle tendenze populiste e invece recupera una forte dimensione valoriale per tornare a esercitare un ruolo educativo,che “educa” appunto alla cittadinanza attiva, che si fa promotore sociale. È per questo che stiamo rafforzando la nostra rete con il mondo dell’associazionismo e del volontariato più vitale, mettendo in campo nuove forme di “lotta sindacale”, come i cash mob (il voto col portafoglio, per premiare le imprese che promuovono legalità, sostenibilità e partecipazione dei lavoratori) e gli slot mob, contro la nuova piaga del gioco d’azzardo.
Una riflessione interessante riguarda il fatto che “rappresentare gli altri è diventata una delle sfide più difficili e al contempo cruciali della società moderna”. Vale sia per il mondo del lavoro sia per la politica e per la società?
In un mondo in cui si è a lungo teorizzato l’individualismo che alla fine ha lasciato sole e impaurite le persone, il sindacato deve essere uno di quei soggetti in grado di portare alla società le vitamine che fanno bene all’umanità. Queste vitamine sono: la consapevolezza, la partecipazione e la solidarietà.
Può dirci di più?
Il sindacato deve aiutare a fare la scelta sostanziale di essere “persone” e non solo “individui”, concetto alla base della dottrina sociale della Chiesa e del personalismo comunitario. L’uomo, infatti, da solo è destinato a rimanere isolato, prigioniero di una falsa libertà. In realtà
solo come “persona”, in relazione con gli altri, può far emergere e sviluppare i propri valori.
Dobbiamo essere capaci di contrapporci con forza a chi fa del richiamo alla paura la propria bandiera politica.
Il filo rosso del suo libro sembrerebbe il “cambiamento”. Lei che ha attraversato alcune delle più dure vertenze industriali del Paese (tra cui Ilva, Ast, Whirlpool), può farci un esempio di reale capacità innovativa del sindacato in qualche recente vertenza?
In tutte le vertenze abbiamo giocato un ruolo fuori dal coro per ricercare soluzioni innovative – cito ad esempio Fiat Chrysler –, mettendo insieme investimento sulle persone, nuova organizzazione del lavoro, tecnologie. Abbiamo riportato lavoro in Italia. Farlo nel sud del Paese ha significato arginare non solo la disoccupazione, ma la camorra, il degrado.
Nel suo volume si fa riferimento a una sorta di “profilo” del buon sindacalista tratteggiato a suo tempo dal cardinale Martini. Quale, dunque, lo stile, l’etica del sindacalista che le sembrano necessari in questa lunga fase di transizione?
Nella mia esperienza sindacale ho sempre pensato che le prediche non funzionino, occorre invece una testimonianza concreta perché il valore dell’esempio, come sosteneva anche il cardinale Martini, è potentissimo ed efficace con tutti, con i lavoratori, con la controparte, con le istituzioni. Come si diceva una volta, “la parola suona ma il buon esempio tuona”. L’esempio presuppone un’etica che si fonda innanzitutto sull’umiltà di considerarsi sempre al servizio degli altri, sulla generosità, sull’impegno, la gratuità, la sobrietà. Oggi questi valori originari del sindacato sono fondamentali per ridare forza, credibilità e reputazione alla nostra azione.