Tra il 2010 e il 2015 si sono registrati in Italia 23mila episodi di violenza contro le donne, una media di 15 al giorno. Lo rende noto Demoskopika, mentre ilViminale informa che nel 2015 sono stati 128 i femminicidi, uno ogni tre giorni, prevalentemente per mano del compagno o dell’ex. Di 58 vittime solo nei primi mesi di quest’anno parla Telefono rosa. Intanto il ministro Maria Elena Boschi, in un’intervista al “Corriere della Sera”, ha annunciato una task force del governo per “sconfiggere il femminicidio”. “Quante ancora ne devono morire?”, chiede la presidente di Telefono rosa, Gabriella Moscatelli, lanciando l’hashtag #quanteancora. Tragici epiloghi in gran parte prevedibili, come purtroppo dimostra ancora una volta l’efferato omicidio di Sara Di Pietrantontonio a Roma, perché preceduti da atti persecutori, percosse, violenza: una spirale perversa spesso difficile da disinnescare. Lo sa bene il team del Soccorso violenza sessuale e domestica (Svsed) attivo a Milano presso la Clinica Mangiagalli – Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, nato nel 1996 come servizio antiviolenza e dal 2007 specializzatosi anche in violenza domestica. Un unicum nel nostro Paese e un’ancora di salvezza lanciata alle troppe donne che non si recherebbero mai in un centro antiviolenza. Primo nodo da sciogliere è la denuncia. Ed è importante tenere un diario.
Ad occuparsi dell’accoglienza – tutto l’anno, 24 ore su 24 – sono solo donne: ginecologhe, infermiere, psicologhe, assistenti sociali. Già in ospedale le vittime possono ricevere consulenza legale gratuita da parte di civiliste o penaliste di Svs donna aiuta donna onlus che potranno seguirle anche durante il processo. “Le donne – afferma la ginecologa Alessandra Kustermann, responsabile del servizio – non devono avere timore di chiedere aiuto. Ogni violenza deve essere prevenuta e fermata. Una vita diversa è possibile”. Se il numero dei casi registrati dal Centro nel 2015 è rimasto sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente: 387 violenze sessuali rispetto alle 378 del 2014, e 417 violenza domestiche contro 420 nel 2014,
“c’è una buona notizia: nel 2015 il 90% circa dei casi di denuncia (168 su 191) ha portato alla condanna dell’aggressore”.
“La denuncia scatta d’ufficio solo in caso di prognosi superiore ai 21 giorni”, spiega la psicologa Laila Giorgia Micci, sottolineando quanto sia a volte difficile convincere le donne a denunciare l’aggressore e come la denuncia sia spesso “il punto di arrivo di un percorso doloroso ma necessario”.
L’ospedale prevede dei posti riservati per accogliere in emergenza le donne per le quali tornare a casa potrebbe costituire un rischio. “Se hanno bambini, li facciamo ricoverare in pediatria, così le mamme rimangono con loro”.
La fase successiva è la costruzione di un progetto condiviso.
Denuncia, come e perché. La donna, aggiunge l’avvocato Roberta De Leo, deve sapere che
“il suo solo racconto può di per sé fondare una sentenza di condanna, poiché ritenuto ‘piena prova’ anche in assenza di riscontri esterni,
purché sia valutato estrinsecamente ed intrinsecamente congruo, cioè dotato di coerenza logica e non smentito da circostanze esterne incompatibili”. Per questo è importante “descrivere dettagliatamente l’episodio specifico cercando di contestualizzarlo il più possibile, raccontando circostanze di tempo e luogo in cui i fatti sono avvenuti”. E tenere un diario, “come l’agenda Alba, distribuita da molti centri antiviolenza, sul quale segnare giorno per giorno piccoli e grandi eventi che feriscono, ma va benissimo anche un quaderno”, che si rivela “uno strumento di grande utilità per l’accertamento giudiziario del reato”. “Rispetto, comprensione, amorevolezza” sono per De Leo gli atteggiamenti necessari nei confronti di chi sta cercando con indicibile sforzo di sottrarsi alla spirale della violenza.
Bisogna imparare ad ascoltare i racconti del male senza giudizio e senza la pretesa di essere direttivi”,
spiega sottolineando la difficoltà di “gestire efficacemente il rapporto con questo tipo di assistita”, per “l’ambivalenza che spesso manifesta nei confronti del proprio aguzzino al quale è comunque legata da un rapporto profondo”.
Non avere paura. E se l’indagato sporge a sua volta denuncia per calunnia, la donna non si deve spaventare: “Costituirà ulteriore elemento di riscontro della sua aggressività”. Se esiste il rischio di vendetta, “in fase di denuncia vanno chieste misure di protezione adeguate”. In certe condizioni è possibile disporre l’allontanamento d’urgenza dell’aggressore dalla casa familiare, qualora invece vi siano gravi indizi di colpevolezza e almeno una delle cosiddette esigenze cautelari, possono essere chiesti e applicati la custodia in carcere, gli arresti domiciliari, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima. Provvedimenti che non sempre, purtroppo, si rivelano efficaci. Tentare tuttavia di porre in salvo se stesse e i propri bambini, a volte vittime innocenti, sempre più spesso testimoni terrorizzati di un lessico familiare ed emotivo impazzito che li segnerà per sempre, è doveroso, anche se è spesso l’esito di un percorso che va accompagnato con pazienza e fiducia.