L’attentato in Bangladesh ci ha improvvisamente ricordato le parole di Papa Francesco sulla “terza guerra mondiale a pezzi” più di quanto non facciano le stragi in Turchia o le autobombe in Iraq. E’ normale che sia così, la morte di nostri concittadini ci tocca più della scomparsa di persone a noi lontane. Tuttavia,
non possiamo permetterci di perdere completamente di vista “gli altri pezzi”, perché mancheremmo di rispetto alle vittime e perderemmo la visione d’insieme su ciò che sta accadendo.
Perderemmo la prospettiva di Papa Francesco, per capirci. La terza guerra mondiale a pezzi è “mondiale” perché tocca continenti diversi e perché contiene un elemento di scontro ideologico che seppure non sempre unitario e perfettamente coerente, emerge in molte zone segnate dal conflitto e a fungere da fattore unificante. È invece “a pezzi” perché radicata in tante tensioni e cause di scontro a carattere fortemente locale e perché non è combattuta da poche grandi potenze in grado di operare su scala globale, ma da molti attori non-statali che usano strategie non convenzionali contro stati che devono adeguarsi e agire di conseguenza.
Arriviamo dunque al perché di questi recenti attentati e al nesso fra questi e l’Isis. Il sedicente Stato islamico ha da subito alternato terrorismo e metodi di combattimento volti al controllo del territorio fra Siria e Iraq. Inizialmente gli attacchi terroristici servivano a indebolire i governi arabi considerati asserviti all’Occidente e a far scappare gli occidentali dal territorio che sarebbe dovuto diventare del “califfato”. In seguito, il terrorismo è stato usato per colpire i Paesi impegnati nella lotta all’Isis. Adesso che questo ha perso il controllo su gran parte del territorio conquistato in precedenza ed è in forte difficoltà,
il terrorismo rappresenta un tipo di lotta privilegiato, poiché necessita di poche risorse finanziarie, organizzative e di armamenti.
In realtà, non sappiamo quanti degli attentati rivendicati in qualche modo dall’Isis nell’ultimo anno siano stati effettivamente ordinati a Raqqa ed eseguiti seguendo una catena di comando che collegava la Siria ai luoghi delle stragi, ma nella logica della guerra mondiale a pezzi non fa molta differenza. Certamente, controllare gli spostamenti di persone da e verso la Siria, l’Iraq, il Pakistan, l’Afghanistan e altri Paesi è importante a fini investigativi, ma la logica della violenza nella guerra mondiale a pezzi è ugualmente chiara. Chi vede nell’avvento del califfato globale l’orizzonte entro il quale la propria frustrazione personale o l’esclusione politica del proprio gruppo potrà trovare finalmente una soluzione, cercherà di sostenere l’Isis come e dove sarà in grado di farlo. Per questo motivo, purtroppo, dobbiamo aspettarci altri attentati in futuro.
Cosa possiamo fare?
Prima di tutto, l’Isis va annientato perché deve essere chiaro che l’orizzonte del Califfato non si concretizzerà mai. In secondo luogo, è necessario rafforzare la rete di intelligence sia in Italia che all’estero, consolidando la cooperazione con i nostri alleati e lavorando per standard comuni, almeno in Europa. In terzo luogo è necessario un lavoro politico ad ampio spettro che elimini le cause di risentimento e frustrazione. In Europa questo vuol dire lavorare meglio sulle politiche d’integrazione, mentre in Medio Oriente si deve operare per la costruzione di regimi inclusivi e per l’isolamento degli Stati che finanziano il terrorismo. Infine, serve un’azione culturale incessante a tutti i livelli, un dialogo coraggioso e costruttivo con i cittadini europei di fede islamica, con gli intellettuali e le autorità religiose dei Paesi arabi, che abbia come fine quello di contemperare affermazione delle rispettive identità e rispetto per ogni persona. È un lavoro lungo, complesso e costoso, ma ci sono poche alternative.