Il tentativo di colpo di Stato in Turchia è stato caratterizzato da varie stranezze. Alcuni osservatori attribuiscono la mancata riuscita del golpe e buona parte delle sue stranezze, alla superficialità e alla scarsa preparazione dei golpisti. Altri ipotizzano che i militari ribelli siano stati spinti all’azione da attori ben più potenti di loro, che all’ultimo momento li avrebbero abbandonati in balìa di un fallimento annunciato. Quale che sia la verità, alcuni fatti sono inoppugnabili e da questi si può partire per capire dove andrà adesso la Turchia.
Il tentato golpe ha provocato circa trecento morti, fra civili e militari. Il ripristino dell’ordine, che assomiglia sempre più a una vera e propria vendetta, ha finora comportato l’arresto di circa seimila persone. Fra queste, si contano quasi tremila giudici, compresi alcuni membri degli organi equivalenti al nostro Csm e al Consiglio di Stato. Una situazione simile indica una società spaccata. Erdogan può contare su molti sostenitori, ma il suo atteggiamento sempre più intollerante nei confronti delle opposizioni, la sua volontà di occupare ogni posto di potere con propri fedelissimi, la sua intenzione di modificare la Costituzione in senso presidenziale per concentrare il potere nelle proprie mani hanno generato forti tensioni.
Dopo quanto accaduto venerdì scorso, sul piano interno molti si attendono che Erdogan, uscito rafforzato dalla vittoria contro i golpisti e sfruttando le massicce epurazioni già avviate, imprima alla Turchia un’accelerazione verso una forma di autoritarismo sostenuto da un’ideologia islamista mutuata dai Fratelli Musulmani e da regole elettorali fortemente penalizzanti per le minoranze.
Sul piano internazionale, il fatto che Erdogan abbia immediatamente indicato Fethullah Gulen come mandante del golpe e che abbia richiesto agli Stati Uniti di consegnare il suo avversario residente in Pennsylvania quasi accusando Washington di complicità nell’azione dei militari ribelli, indica che le relazioni fra Turchia e Usa sono al minimo storico da molti decenni. Erdogan non ha gradito il riavvicinamento fra Russia e Stati Uniti sulla lotta all’Isis, le critiche ricevute per aver lasciato passare migliaia di fondamentalisti islamici europei verso la Siria, l’appoggio dato dall’Occidente ai curdi in funzione anti Isis. Ritiene che gli Stati Uniti stiano relegando la Turchia in un angolo e il silenzio di Obama venerdì notte, fino a quando il golpe non era ormai fallito, ha rafforzato questa sua impressione. Si prefigurano dunque rapporti più difficili fra gli Usa e Ankara.
Erdogan venderà a caro prezzo la possibile collaborazione della Turchia in ogni ambito e farà valere il peso geopolitico del proprio Paese con ancora meno scrupoli di quanto non faccia adesso. La stessa dinamica si può attendere fra la Turchia e i Paesi europei, perché nessuno è corso a rilasciare dichiarazioni a sostegno di Erdogan venerdì sera.
L’Europa ha bisogno della Turchia per questioni cruciali come la lotta all’Isis, la guerra in Siria e la conseguente crisi dei profughi. Erdogan lo sa e cercherà di sfruttare la situazione, ma deve stare attento a non tirare troppo la corda. Gli Stati europei sono lontani da avere un’idea comune di politica estera, ma su alcune questioni basilari potrebbero trovarsi d’accordo. Se così accadesse e la guerra in Siria finisse, con l’Isis che ormai è in ritirata e fa più paura come cartello terroristico transnazionale che come entità territoriale, Erdogan potrebbe trovarsi con poche armi di ricatto. Se chiudesse i rapporti con l’Europa e accentuasse ancora di più i caratteri islamici della Turchia, rischierebbe di radicalizzare le opposizioni e di minare la propria stabilità. Una Turchia ancora più instabile farebbe crollare il settore turistico, già fortemente in crisi. Inoltre, uno scontro con l’Europa a un Paese che intrattiene con l’Ue il 50% del proprio interscambio commerciale non conviene mai. Dunque, sul piano interno Erdogan si trova rafforzato, almeno nel breve periodo. Sul piano internazionale la tensione probabilmente salirà, ma potrebbe valere lo stesso principio, a patto che “il sultano” di Ankara non tiri troppo la corda.