(Sir – di Francesco Bonini)
Ormai lo conosciamo bene: Papa Francesco ama parlare chiaro. Così, in viaggio per la Gmg, ha usato ancora una volta la parola “guerra”, una delle parole tabù di quel lessico politicamente corretto che altro non è che uno degli specchi della nostra decadenza. “Non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra, perché ha perso la pace”.
Della guerra offre due ordini di definizioni. La prima in negativo: questa, dice, non è una guerra di religione, perché “tutte le religioni vogliono la pace”. È una “guerra a pezzi”, ribadisce poi. È una guerra mondiale, precisa. È una guerra “sul serio”: di interessi, per i soldi, per le risorse della natura, per il dominio dei popoli. Una guerra mondiale a pezzi, tanto in senso cronologico, quanto in senso geografico: si combatte a strappi e in diversi scenari geopolitici.
Tra le poche certezze di questa guerra mondiale a pezzi ci sono le persecuzioni dei cristiani e dei cattolici in particolare, le vittime più esposte ad uno dei vettori del conflitto, l’ideologia islamista. Proprio qui si spiega l’affermazione per cui questa guerra non è una guerra di religione, perché l’islamismo utilizza l’Islam (e proprio per questo immagina come suo nemico “i crociati”, che ovviamene non esistono, men che meno nell’Occidente secolarizzato e ateista), ma solo per legittimare se stesso e insieme costruire il nemico.
L’islamismo, così come formalizzato tra ventesimo e ventunesimo secolo, è una ideologia totalitaria, una “totalità emancipatoria”, che, così come altri precedenti -ismi, catalizza il conflitto.
Affondando nel marasma della globalizzazione, nelle sue enormi e crescenti contraddizioni sociali, a livello planetario e ormai dentro tutte le società nazionali, nel vuoto culturale, ideale ed identitario, l’islamismo produce effetti molteplici perché, oltre a provocare lutti e rovine, genera retroazioni nei sistemi che attacca.
Dal punto di vista dell’Europa, ovvero dei diversi Paesi europei, raccogliere la sfida, oltre che reprimere la violenza e tutelare la sicurezza, ma senza indulgere agli interessi del cosiddetto warfare, che è una vera e propria industria, significa iniziare un vero e franco processo di riflessione politica, sociale e istituzionale.
Svuotati di principi, di riferimenti e di valori, di prospettive di sviluppo e di inclusione sociale, i sistemi democratici mostrano tutta la loro fragilità, come aveva scritto Giovanni Paolo II alla caduta del comunismo, nel 1991. Non reggono il costo delle trasformazioni sociali, come dimostra la giusta protesta del ceto medio impoverito e marginalizzato, né il flusso delle migrazioni e dunque dell’integrazione, come dimostrano i terroristi delle “seconde generazioni”. Occorre insomma avere una identità. E qui le cose cominciano a diventare complicate, molto complicate, perché da mezzo secolo le ideologie dominanti battono in breccia questo tema, diventato ormai tabù.
Per di più, come in tutti i conflitti, esiste un “partito della guerra”, trasversale agli schieramenti, che fa profitti sulla guerra in quanto tale e ha interesse a perpetuarla, magari tenendola a bassa intensità: una guerra mondiale, appunto, a pezzi. Dalla quale si esce solo con un investimento sociale, culturale e morale, per il quale però non sembrano esserci oggi le condizioni. Per vincere la guerra bisogna cambiare verso, davvero. E così qui ritroviamo l’essenza dell’insegnamento di papa Francesco: la conversione (anche del modello di sviluppo, come ripete) e dunque la riconciliazione e così lo sviluppo, già per Paolo VI nome contemporaneo della pace.
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