Quando la terra trema, la persona trema. È impossibile non provare panico e autentico terrore. Per se stessi, per i propri cari e per il mondo che ci siamo, con fatica, costruiti intorno e che costituisce il grembo in cui viviamo.
L’emergenza non è quella generata dall’ansia dell’ignoto, del possibile futuro ma quella di una realtà che, incombendo, minaccia e distrugge.
La ridda degli interrogativi è il terremoto psichico e di fede che impedisce di conservare uno sguardo di fiducia e di speranza al guardarsi intorno.
Quando il grido del terrore si innalza a Dio significa che, tutto sommato, Egli in un qualche modo che solo Lui conosce, è presente. Lasciar quindi esplodere paura, risentimento, accusa non fa altro che avvicinarci a Giobbe e a rendercelo fratello. Anche per lui ci fu distruzione completa e totale.
Il benessere infatti recuperato successivamente, se viene osservato dalla parte delle cose e delle proprietà, forse ripaga la perdita. Se invece viene osservato dalla parte dei figli, quand’anche nascano dei figli, non saranno mai gli stessi che sono periti.
Me ne sto tranquilla nella mia casa che non ha subito danni e non posseggo proprietà o figli di cui poter essere orbata. Parlo quindi a freddo. Il mio protestare la vicinanza ai terremotati mi suona falso o ipocrita. Come riuscire ad entrare in un simile, improvviso dramma? Non so dare risposta. Rimango attonita e vacillo. In simili situazioni non conta la prontezza, la capacità di cavarsela sempre, la lungimiranza. Non conta nulla. Si è in balia del destino, dell’azzardo, dell’assurdo. L’unica possibilità che resta è quella di stendere la propria mano in aiuto, sperando, sotto sotto, di non dover mai affrontare una simile sventura.
La nostra scienza, la nostra tecnica, rischiano di essere tacciate di scientismo e, per di più, di superficialità. Siamo degli incapaci.
Chi, in questi giorni, non si è chiesto, nel suo contesto quotidiano, quale fosse la via di fuga più rapida e sicura qualora fosse avvertita una scossa nei suoi paraggi?
Affrontare il piano della fede fa tremare le vene ai polsi.
Potrebbero scorrere davanti agli occhi frasi devozionali, invocazioni deludenti. In fin dei conti degli insulti alla razionalità e alla sofferenza altrui.
Se Dio è Padre come può accadere tutto questo? Perché è capitato ad alcuni e non ad altri? Perché le famiglie si sono ritrovate in lutto?
Non so dare risposta. Potrei arrampicarmi sui muri teologici ed abbozzare la risposta che conduce al Dio che si prende cura di noi. Sarebbe disonesto e un insulto a me stessa.
Trovo una sola via d’uscita che mi consente di stare vicino a tutti i sofferenti e di abbracciare ogni sofferenza: non chiedermi dove è Dio ma chiedermi dove stiamo noi persone? La cura del creato come la gestiamo?
Il Dio, che mi si è fatto conoscere nel Figlio incarnato, è quel Dio che piange con noi, che è partecipe del nostro dolore. Di ogni nostro dolore.
Il Dio che ha attrezzato la persona di ogni possibile qualità per rendere bella la terra, renderla abitabile e rendere felici tutti.
Non è una grande schivata che evita la risposta, è l’unica postura che, in me, genera speranza. L’unica che mi consente di pensare ad un futuro in cui noi saremo capaci di controllare la terra e tutte le sue manifestazioni.
Dio non punisce, Dio ama e conduce.
Perdere affetti e cose lascia nella desolazione. Una sorta di deserto di sale che non si può percorrere con le proprie forze, bisogna guardare in alto e osservare le stelle che pur nella notte indicano la direzione. Lasciarsi portare alla meta.
La nostra meta non può che guardare a Lui e chiedergli, nella strettoia dell’urlo, che stia vicino a chi soffre ed è innocente, che illumini chi ha avuto il dono della scienza a trovare strade di sicurezza.
Non vuole dire sdraiarsi sicuri nel proprio letto ed addormentarsi ma rischiare la propria vita in un Amen che guarda al Crocifisso, sofferente e dolente, per poterlo pensare Risorto. È la sfida che urla a Dio: guardaci, tutto da Te dipende.
Per poter coltivare, malgrado tutto e proprio poggiando i piedi sulle macerie pietrose e sulle macerie spirituali dei nostri fratelli, uno sguardo che guarda più in là sulla quella strada che conduce a Lui, a quel Volto che tutti i morti ora contemplano con gioia e serenità.
Egli solo può donarla e chiede di versarla nei nostri cuori dolenti.
Diamogli credito nel dolore, nella sventura. Diamogli credito perché il nostro terremoto interiore si plachi e possa guardare alla vita.