Il referendum è sempre presentato come un metodo democratico per consultare il popolo su una questione particolare, al punto che se qualcuno intende contestarlo è subito accusato di opporsi al principio stesso del suffragio universale. In realtà, il referendum francese del 2005 sulla Costituzione europea e l’ultimo referendum britannico del 23 giugno, concluso con la vittoria del Brexit, esigono di sottomettere il concetto di referendum a un nuovo esame, e sembrano illustrare il fatto che il referendum è, piuttosto, e per quattro ragioni, una “caricatura” di democrazia.
La prima ragione viene dalla complessità della questione sottoposta agli elettori. Non si tratta, in genere, di una questione circoscritta, puntuale, facilmente individuabile, o su problemi locali, come accade in Svizzera dove il referendum fa parte della cultura politica. Invece,
nei casi francese e inglese, si trattava di domande molto complesse, alle quali bisognava fornire una risposta semplice: “sì” o “no”.
Nel 2005, bisognava rispondere sì o no a un testo costituzionale che comprendeva alcune centinaia di articoli. Nel caso britannico, a giugno, i cittadini erano invece chiamati a dire sì o no all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea: una questione che in realtà comprendeva tante altri temi molto tecnici e complessi. In questi due casi, l’elettore, anche ben preparato, difficilmente poteva avere le idee chiare o una piena coscienza delle conseguenze del suo voto.
Allora, è la seconda ragione,
il cittadino diventa prigioniero di una campagna elettorale che poggia su un dibattito tutt’altro che sereno,
che sarebbe molto difficile da organizzare e promuovere perché dovrebbe esigere dai diversi protagonisti un alto livello di cultura e soprattutto un profondo rispetto del popolo e della democrazia. Al contrario, e tutte le esperienze di referendum lo testimoniano, le campagne prendono sempre una dimensione populista, demagogica. Sono condotte sulla base dell’emotività anziché della riflessione, quando non si tratta della paura e dell’odio di ogni alterità. La campagna diventa rapidamente il tempo della menzogna per indurre paura rispetto agli esiti del voto. L’abbiamo osservato in Inghilterra poco tempo fa; e in Francia nel 2005 gli oppositori alla Costituzione europea avevano inventato la minaccia dell’operaio polacco che in caso di vittoria del sì sarebbe subito arrivato in Francia per prendere il lavoro dei francesi.
Quindi, terza ragione,
alla fine una gran parte dei votanti non risponde direttamente al quesito posto, ma esprime i propri timori o dà una risposta politica pro o contro il governo che ha organizzato la consultazione.
Nel 1969 in Francia, il Presidente della Repubblica, il generale de Gaulle, volle un referendum su una riforma delle istituzioni dello Stato; ma la campagna fu incentrata pro o contro il Capo dello Stato e non sulla riforma in questione. Vari referendum sono stati organizzati in passato per mediocri calcoli politici, per rafforzare il proprio potere e rispondere non alle esigenze del bene comune ma a strategie personali.
Perché, e si tratta della quarta ragione, i leader politici sono troppo spesso incapaci di assumere una vera decisione, di spiegarla ai cittadini, di ascoltare, di trovare i compromessi necessari, cioè di far vivere la democrazia. In queste condizioni,
il ricorso al referendum traduce la crisi della democrazia in un contesto di sfiducia nei confronti della classe politica e dei partiti.
I politici abbandonano le loro responsabilità alla “vox populi”, con un profondo disprezzo per i corpi intermedi. In realtà, la vera democrazia è quella rappresentativa, di cui il sistema parlamentare britannico fu a lungo un modello: permette di calmare le passioni, di far vivere un vero dibattito, di giungere a soluzioni che pur essendo di mediazione prendono in carica l’interesse generale.
Purtroppo il tempo dei grandi uomini di Stato che vedevano lontano e avevano il coraggio di portare avanti grandi progetti – come Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Paul-Henri Spaak – sembrerebbe finito.
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