“È necessario far uscire il conflitto del Sud Sudan dal cono d’ombra in cui è precipitato perché rischiamo un nuovo genocidio. La gente racconta episodi di violenza che non hanno eguali nemmeno nella cinquantennale guerra con il nord: bambini bruciati vivi nelle capanne, donne stuprate sistematicamente, omicidi su base etnica. Nemmeno le chiese, le missioni e le sedi delle ong, sembrano più al sicuro”.Padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei missionari comboniani a Juba, ha approfittato di una breve parentesi in Italia, per denunciare la difficile situazione che si trova ad affrontare il Paese dopo l’ennesima crisi, esplosa nella capitale la notte dell’8 luglio scorso. L’ultimo episodio di questa lunga guerra ha avuto origine dall’uccisione di alcuni soldati dell’Spla, l’esercito regolare fedele al presidente Salva Kiir, da parte delle forze legate al leader dell’opposizione Reik Machar: i due uomini che, da tempo, tengono in scacco le sorti di un intero Paese. Il risultato è l’aggravarsi di una delle crisi umanitarie più grandi e meno conosciute al mondo: 5,1 milioni di persone bisognose di aiuti (su una popolazione totale di 12-13 milioni), 1,6 milioni di sfollati interni e 975mila rifugiati fuori dai confini(dati Unhcr e Ocha). Una crisi umanitaria che va di pari passo con quella economica con un’inflazione che ha toccato il 680%.
Speranze tradite. “Quando alla fine di aprile Machar era rientrato nella capitale, insieme a un contingente dei suoi soldati, per giurare come vicepresidente nel nuovo governo di coalizione – spiega il missionario – sembrava si potesse imboccare finalmente la via della pace dopo la guerra scoppiata nel dicembre 2013”. Così non è stato:
sono bastati tre giorni di combattimenti, con quasi mille morti, per mandare in fumo mesi di negoziati.
Machar, dopo aver trovato riparo con parte dei suoi uomini in RD del Congo, è stata accolto a Karthoum, ufficialmente per “motivi umanitari”, dal governo sudanese.
Il saccheggio di un intero Paese. Ma a preoccupare maggiormente è la deriva etnica del conflitto con la contrapposizione sempre più marcata tra dinka (4 milioni di persone) e i nuer (1 milione), le più grandi tra le 64 etnie presenti in Sud Sudan. “Purtroppo – continua il religioso –, durante gli ultimi due anni di guerra, entrambi i leader hanno giocato la carta dell’etnicità per coalizzare i propri gruppi, ma si tratta esclusivamente di una guerra per il potere. Il Sud Sudan e le sue riserve fanno gola a tanti, dentro e fuori dal Paese”. Un recente rapporto curato dal progetto “The Sentry” – promosso tra gli altri dall’attore americano George Cloney – dimostra, infatti, come generali e persone vicini ai due leader si siano arricchite portando fuori dal Paese milioni di dollari negli ultimi anni. A pagarne le conseguenze è come sempre la gente comune che si trova a convivere con le violenze sistematiche dei militari lasciati senza stipendi.
“La situazione ora appare più calma in città – precisa padre Moschetti – ma la tensione resta alta e in varie parti del Paese si continua a combattere. Entrambi gli schieramenti appaiono indeboliti: il presidente ha sostituito i ministri rimasti fedeli a Machar con altri politici nuer, segno di come il fronte degli oppositori non sia compatto. Ma anche Kiir appare indebolito da questa lunga guerra e in vari ezone del Paese stanno nascendo forme di opposizione alla sua leadership”.
In particolare, viene criticata la scelta di aumentare da 10 a 28 gli stati delle federazione. Una decisione che, secondo i critici, cela la volontà di garantire una supremazia dinka nella maggioranza degli stati.
Un’oasi di pace. È alla luce di questa drammatica situazione che appare ancor più profetica la decisione degli istituti religiosi presenti in Sud Sudan di inaugurare, il prossimo 15 ottobre,
il “Good Shepherd Peace Center”, un centro di formazione e preghiera che è stato costruito alla periferia della capitale.
La struttura, realizzata in accordo con la Conferenza episcopale locale è costata 2,5 milioni di euro (con un finanziamento della Cei di 1,8 milioni) e avrà oltre sessanta posti letto. “Per chi vive quotidianamente la dimensione del conflitto – conclude il padre Moschetti – è importante avere un luogo in cui ritrovare la tranquillità. A Juba non esiste un posto simile e in occasione degli incontri di formazione si era costretti a ripiegare sugli alberghi, con costi notevoli. Juba è, infatti, la seconda capitale più cara dell’Africa. Il centro sarà un luogo ecumenico aperto a quanti vogliono lavorare per un futuro di pace”.