“Vorrei pieno il Cielo, svuotato il Purgatorio, chiuso l’Inferno”. Era questo il desiderio di Elisabetta Sanna, laica sarda e terziaria professa dell’Ordine dei Minimi di San Francesco, vissuta a cavallo tra il 1700 e il 1800. Affettuosamente chiamata anche come “Mamma Sanna”, è stata beatificata questa mattina dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, a Codrongianos, in Sardegna, nella Basilica della Santissima Trinità di Saccargia.
Proprio in questo piccolo comune del Sassaritano, la donna, sposa e madre di sette figli, è vissuta e ha operato, spendendo le sue energie nell’apostolato. Nata nel 1788, seconda di nove figli, in una famiglia di agiati contadini – il padre era sindaco del paese – Elisabetta fu colpita in tenera età dal vaiolo, a causa del quale fu fortemente limitata nei movimento degli arti superiori. Nonostante questa disabilità, fu chiesta tuttavia presto in sposa.
Dal matrimonio – racconta il postulatore della causa di beatificazione, Jan Korycki, sulle pagine de L’Osservatore Romano – nacquero sette figli, cinque dei quali sopravvissero. La madre riuscì ad allevarli nel migliore dei modi e oltre a loro educò anche i bambini del paese, catechizzandoli e preparandoli ai sacramenti. La sua casa era aperta soprattutto alle donne desiderose di imparare canti e preghiere. Dopo 17 anni di vita coniugale, nel 1825 morì il marito; Elisabetta non si disperò, ma seppe educare i figli, guidare i lavori dei campi, curare le mansioni domestiche, aiutare i bisognosi e visitare spesso la Madonna di Saccargia.
La sua casa era sempre in ordine e diventò ben presto un piccolo oratorio. Il fratello sacerdote, don Antonio Luigi, ha lasciato testimonianze delle preghiere fatte insieme a casa, della recita del Rosario, della partecipazione alle celebrazioni e dell’aiuto prestato ai poveri. “Mamma Sanna” era continuamente dedita al prossimo, in modo particolare ai più bisognosi e alla propria famiglia. Da vedova, ad esempio, pur avendo solo un piccolo alloggio per la sua numerosa famiglia, ospitò una giovane, rimasta anch’ella vedova, che aveva preso una strada sbagliata, finché non fu redenta.
Crescendo nella vita spirituale, la donna fece voto di perpetua castità e decise d’intraprendere un pellegrinaggio in Terra Santa, insieme al suo confessore don Giuseppe Valle. Durante il viaggio, il progetto si rivelò impossibile e i pellegrini si recarono a Roma. Lì nell’Urbe, conobbe in modo straordinario san Vincenzo Pallotti e si affidò alla sua direzione spirituale.
Fu lui che comunicò al fratello che la sorella al momento non poteva viaggiare per motivi di salute e che sarebbe tornata in Sardegna appena fosse stata meglio. In realtà, il male si inasprì e il ritorno non fu più possibile. A Roma, Elisabetta nonostante la malattia accudiva i bisognosi di beni materiali e spirituali, assisteva gli ammalati in ospedale e nelle loro case, anche a costo di ricevere da qualcuno segni di ingratitudine, o accoglieva la gente che le faceva visita nella piccola soffitta in cui viveva per pregare davanti al quadro della Virgo potens o elargire consigli.
Una parte delle sue numerose sofferenze era legata all’impossibilità di tornare in famiglia, un’altra alle malattie e altre alle vessazioni del demonio. Ed Elisabetta le offriva, insieme alle preghiere e alle pratiche di penitenza, come espiazione per i peccati e per implorare la salvezza di tutti. Seguendo l’esempio di Vincenzo Pallotti, pregava anche e offriva le sue sofferenze per l’unità dei cristiani, perché di tutto il mondo si facesse un solo ovile. Secondo diverse testimonianze, rivela il postulatore, il suo dolore ebbe tregua quando seppe che la famiglia era in uno stato migliore di quando lei l’aveva lasciata.
Alla morte, avvenuta il 19 febbraio 1857, la sua fama di santità era ampiamente diffusa; tanto che nella sua stamberga nei pressi della Basilica Vaticana, la gente sussurrava: “È morta la Santa, la donna che stava sempre a pregare in San Pietro”.