Il 24 settembre ad Amatrice (un mese esatto dal sisma) entro in punta di piedi nella tenda dove si sta celebrando Messa. Non come un ladro ma come una persona che non vuole disturbare, cerco la posizione che possa dare meno fastidio a tutti. Non sto neppure in piedi per non impedire la vista a chi sta dietro di me e segue la celebrazione. Ma proprio mentre sto per scattare una foto ad Alessia, in modo comunque da far percepire che è una bambina ma senza renderla riconoscibile, e il volto del vescovo di Rieti finisce incorniciato tra le teste dei genitori che tengono la battezzata in braccio, improvvisamente l’inquadratura si fa buia e mi accorgo che un bambino mi si è parato innanzi. Mi scosto leggermente più verso la destra, restando sempre in ginocchio e rimanendo il più discreto possibile, affacciato appena tra le file di sedie ma, puntualmente ad ogni spostamento, la scena si ripete e capisco che non è solo una casualità, allora guardo diritto negli occhi il bambino e gli chiedo a bassa voce: “Ma lo stai facendo di proposito?”. Sincera e chiara la sua risposta: “Sì”.
Gli chiedo scusa con gli occhi perché capisco immediatamente cosa sta succedendo, da un mese a questa parte, in questa terra martoriata dal terremoto che ha mietuto vittime e lasciato di Amatrice solo macerie.
Non posso fare a meno di chiedergli scusa, anche se, dentro di me, so di non essere uno di quei giornalisti che, pur di riempire il tempo del servizio, è pronto a piazzare il microfono sotto la bocca di qualsiasi persona si trovi innanzi; anche se non sono uno di quei cameraman che si infila nei bagni chiusi; anche se non sono uno di quei fotografi che non si rendono conto che il click della macchinetta a volte fa più rumore di una casa che crolla; anche se non cerco cadaveri per riempire le pagine del giornale ma voglio conoscere i vivi per trovare con loro il modo di aiutarli; anche se non vado alla ricerca di lacrime disperate, ma di un sorriso di speranza.
Le scuse sono dovute a persone che, loro malgrado, si sono ritrovate vittime di un sisma e, per questo, al centro delle attenzioni dei media di tutto il mondo che, forse troppo presi dall’ansia di dover raccontare qualcosa più velocemente o meglio di altri, alcune volte non si rendono conto che di fronte ci sono persone come loro e, anche se non hanno più una casa, quella vorrebbero che restasse comunque la loro intimità.
Un bambino forse non riesce a percepire bene cosa sia la famosa privacy di cui ci riempiamo la bocca noi adulti e, molto probabilmente, quel bimbo che cercava in tutti i modi di non farmi scattare la foto, in realtà cercava solamente di farsi giustizia a modo suo,
facendo un dispetto a una di quelle persone che, in quest’ultimo periodo, avrà sentito tanto disprezzare dai suoi genitori perché non gli hanno lasciato la possibilità di avere un po’ di pace, neppure mentre erano sporchi, svestiti, in lacrime o semplicemente seduti su una panchina per riposarsi un attimo.
È giusto raccontare cosa accade, lo stiamo facendo soprattutto per cercare di esaudire il primo desiderio di chi ha subito questa vicenda, cioè non spegnere i riflettori su quanto è accaduto e sulle promesse fatte perché il territorio colpito dal terremoto risorga il prima possibile. Dobbiamo però renderci conto che i riflettori danno anche fastidio e quindi, a noi giornalisti, forse farebbe bene ripensare al consiglio per l’armonia in famiglia donato da Papa Francesco, che tutti attendiamo ad Amatrice per poter consumare altre ore di televisione o spellarci il dito sul tasto di scatto della macchinetta fotografica: “Permesso, grazie, scusa”.