Un tasso di disoccupazione a doppia cifra (11,4 per cento), che per i giovani tra i 15 e i 24 anni sale inesorabilmente al 38,8 per cento. La precarietà diffusa, il lavoro nero e sottopagato, il caporalato, il buco nero del Sud. La situazione desta a tal punto la preoccupazione della Chiesa italiana da spingere i vescovi a dedicare la prossima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017, al tema “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”. A guidare il Comitato scientifico e organizzatore è monsignor Filippo Santoro, vescovo di una città profondamente segnata dalle questioni legate al lavoro e alla sicurezza come Taranto.
Quale risposta può dare la Chiesa alle famiglie che faticano a far quadrare i conti, ai giovani che non sognano più il futuro perché non hanno un impiego, ai poveri che hanno sempre meno possibilità di cambiare la propria condizione?
Si risponde sempre con la prossimità, la vicinanza reale e concreta. La Chiesa non può essere supplente sul fronte del lavoro, ma è fermento di bene perché si attuino condizioni che garantiscano dignità e serenità alle famiglie.
Una famiglia senza i mezzi di sostentamento, senza lavoro, è doppiamente povera e la Chiesa sta vicino per vocazione ai poveri, non solo per assistenza ma per vincere la povertà.
La Chiesa non discetta sulle questioni, non si ferma alle riflessioni sociologiche, ma essa stessa è comunità di famiglie, di giovani, che non solo sognano un futuro migliore ma ne hanno diritto!
Eccellenza, cosa significa parlare di lavoro “libero, creativo, partecipativo e solidale”?
Se si serve esclusivamente il denaro o le cosiddette leggi di mercato, si guarda sempre meno alla dignità delle persone perché manca la condivisione. Il sistema economico globale, e Papa Francesco lo ha spesso stigmatizzato, seguendo gli interessi dei colossi della finanza e della produzione non opera quella inclusione dei poveri. Quanto al lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale (Evangelii Gaudium 192), cerchiamo di riflettere anche su come sia necessario ripensare il lavoro innanzitutto in termini di stabilità così com’è stato inteso fino ad ora. Occorre prendere atto di una mobilità lavorativa necessaria alla quale non siamo affatto abituati e al contempo non perdere di vista che il lavoro non è soltanto il mezzo per la sussistenza, ma la condizione mediante la quale una persona si realizza, matura, si esprime e con il suo talento arricchisce la società.
L’impoverimento del ceto medio è un rischio per la tenuta sociale e democratica del Paese?
Sicuramente. Nonostante timidi accenni di ripresa, direi che il rischio è attuale. La povertà genera reazioni a catena creando delle vere e proprie emergenze sociali di ogni tipo. Nei grandi centri del nostro Paese, si fa fatica a individuare il ceto medio, perché la forbice di quelli che chiamiamo ricchi e poveri si è ulteriormente allargata. È evidente che la tenuta democratica ne patisce di conseguenza.
Perché è importante puntare sull’etica dell’impresa?
Tutto parte dall’etica, dagli obiettivi che un’azienda si pone. Il profitto non può essere l’unico criterio, perché necessariamente va a sacrificare l’attenzione verso le persone. Papa Francesco parla di umanesimo del lavoro. Potrebbe sembrare generico e altisonante come proposta etica, fin quando non si mette a raffronto l’umanesimo del lavoro con
tutto ciò che non è umano nel lavoro: carenze nella previdenza, precarietà, garanzie e servizi scarsi per le donne occupate, come anche, e purtroppo ne sono testimone diretto, l’esposizione dei lavoratori a gravi rischi per la salute a causa della scarsa sicurezza e del contatto con agenti inquinanti.
Per parlare di umanesimo del lavoro bisogna partire proprio da questi principi. L’etica cristiana mette al centro l’uomo nella sua realizzazione integrale. Certo non sfuggirà il problema fiscale e l’alta tassazione a cui tra noi sono sottoposte le imprese per vivere. Ben presente è anche il rapporto tra lavoro e legalità.
Tra gli obiettivi della Settimana, l’individuazione di proposte per la creazione di lavoro nel Paese.
La Settimana cercherà innanzitutto di raccontare il lavoro, nelle sue forme reali, a partire dalla voce dei protagonisti.
Senza rinunciare alla denuncia, non si attarderà nello sterile lamento.
Ricercherà in Italia, e non solo, le buone pratiche: una raccolta di prassi aziendali, territoriali, istituzionali che hanno dato esito positivo e che possono essere rilanciate. Buone pratiche che hanno dato frutto e che hanno visto il coinvolgimento delle varie forze sociali e comunitarie, in ambito nazionale e internazionale. Ovviamente non mancherà una riflessione sul valore del lavoro a servizio della verità: insieme a tante possibilità di realizzazione delle persone c’è molto sfruttamento, lavoro nero, disuguaglianza. E soprattutto livelli elevatissimi di disoccupazione, in particolare al Sud.
Sarà ripensata anche la struttura della Settimana Sociale, affinché non si risolva nella convegnistica ma sia un’esperienza che apra alla progettualità?
Senza dubbio. Tutti i membri del Comitato ritengono superata la convegnistica accademica e propongono lo stile partecipativo e sinodale che già sta emergendo nella preparazione della Settimana, privilegiando l’ascolto e il racconto della realtà del lavoro, della sua assenza e del suo cambiamento in atto.
Il Comitato è inoltre impegnato fin da adesso a definire un’iniziativa di valore simbolico, da proporre alle comunità cristiane, di concreta solidarietà nei confronti di chi non ha lavoro.