A tal riguardo, Occhetta racconta la riforma fatta negli anni Novanta nel carcere di Nuova Delhi, il più grande dell’Asia, dalla direttrice Kiran Bedi, leggendo in essa un “possibile modello di rieducazione da introdurre negli Ordinamenti”. La riforma in questione “pone al centro un’idea di carcere ‘correzionale’, ‘collettivo’ e ‘comunitario’ che include programmi di reinserimento, piani d’interazione tra l’amministrazione penitenziaria e i detenuti, e il coinvolgimento attivo della società civile (famiglie, volontari, media)”. Ma, soprattutto, “il fondamento del modello rieducativo non è di natura tecnica o giuridica, ma spirituale”. Ciò “ha disorientato il mondo accademico”, eppure, “nel carcere di Tihar, la recidiva è scesa dal 70% al 10% in due anni grazie agli effetti di una pratica meditativa antica, che risale a 2.500 anni fa e che permette ai detenuti di conoscersi interiormente e di comprendere il male fatto”. L’opera di Bedi inizia in un contesto “infernale”, con quasi 10mila detenuti di cui solo un migliaio che sconta la pena definitiva, 300 donne e circa 50 bambini di età inferiore ai quattro anni che vivono in un contesto di violenza e soprusi. La direttrice parte dal considerare il tempo – anche quello dei detenuti – “come valore” e utilizzando “la presenza e l’ascolto per ricostruire”. Poi coinvolge lo staff carcerario, la società e i media. Ma ciò che sta al cuore della riforma è la meditazione “Vipassana”, “una sorta d’immersione profonda per esplorare la realtà interiore”. Questa riforma – sottolinea p. Occhetta – “continua nella maggior parte della carceri dell’India”, nonché “è stata poi esportata nelle carceri di Taiwan e in quelle di San Bruno, a San Francisco, e nelle carceri di Seattle, a Washington. È entrata anche in alcune carceri di Paesi come l’Inghilterra, la Nuova Zelanda e l’Australia, che hanno scelto di adottare il modello della rieducazione classica”. Ma, in Europa, “la maggioranza degli operatori del diritto – lamenta – ha soffocato l’entusiasmo e le speranze di migliaia di universitari che venti anni fa si appassionarono a tale riforma”, ritenendo “impossibile innestare una pratica orientale nella cultura occidentale”.
Una dimensione che, invece, “si basa – conclude il gesuita – sul fatto che ‘un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi’. È da qui che, per la cultura giuridica, inizia la riabilitazione integrale del detenuto”.