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Andrzej Wajda seppe fare della Polonia la metafora del mondo e dei suoi orrori

Di Paola Dalla Torre

Nel gennaio del 2000 Giovanni Paolo II assistette alla proiezione privata, nel buio della sala cinematografica vaticana a palazzo San Carlo, di un film che, a detta dei presenti, lo fece commuovere profondamente. Sappiamo, del resto, della passione e dell’attenzione di Giovanni Paolo II nei confronti del cinema e dell’arte in generale, avendo calcato lui stesso da giovane le scene teatrali ed essendosi cimentato nella scrittura di opere teatrali. Il film in questione era l’ultimo lavoro di un regista polacco (come era, naturalmente, anche il Papa): “Pan Tadeusz”, diretto da Andrzej Wajda e tratto da un poema epico dello scrittore romantico Adam Mickiewicz, un classico della cultura tradizionale polacca (che il Papa conosceva molto bene, avendolo portato sulle scene). Ad Andrzej Wajda, grande regista scomparso ieri all’età di 90 anni, piaceva ricordare quell’occasione. Ricordava che il Santo Padre si era commosso fino alle lacrime: “L’ ho visto, era seduto abbastanza vicino a me, e ho voluto guardarlo mentre vedeva il film: tanto la trama la conoscevo già”. E che il Pontefice lo avesse ringraziato per quella pellicola perché

“non è mai tempo perso ricordare le radici del proprio Paese”.

E proprio alle radici e alla storia del suo paese, Wajda ha consacrato tutta la sua cinematografia. Con un’attenzione profonda, seria e mai banale nel ricostruire i grandi eventi che hanno attraversato la Polonia e che, in parte, il giovane Wajda ha vissuto. Naturalmente condannando senza mezzi termini gli orrori della guerra e dei totalitarismi, in modo particolare quello comunista, che era quello in cui Wajda era cresciuto.
Figlio di un ufficiale di cavalleria morto durante la seconda guerra mondiale (durante la strage di Katyn, a cui il regista ha dedicato anche un film), ancora adolescente Wajda combattè contro i tedeschi e nel corso del tempo fu sempre in prima linea nelle lotte sociali del proprio paese. Non a caso uno dei suoi film più famosi e con il quale vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1991 è “L’uomo di ferro”, racconto del movimento di Solidarnosc. Nella pellicola compare anche Lech Walesa nei panni di sé stesso, con il quale, nel frattempo, il regista era diventato molto amico.
I primi film di Wajda erano stati dedicati alla dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale e alla resistenza polacca ai nazisti, che occuparono il Paese per 6 anni, ma la sua consacrazione internazionale era arrivata con L’uomo di marmo, nel 1976, con cui aveva ottenuto il Premio della Critica internazionale di Cannes, nel 1978.

Considerato uno dei cineasti polacchi di maggior rilievo, era stato nominato all’Oscar nella categoria miglior film straniero in tre occasioni ma lo ottenne solo nel 2000 per la sua carriera.

E’ stato definito dai suoi connazionali il “regista simbolo dei tempi”, il testimone delle catastrofi passate che con le sue pellicole voleva avvisare e prevenire affinché i suoi connazionali e l’Europa tutta non ripetessero più quei sacrifici inutili.

Un regista che ha sempre creduto nella missione sociale e culturale del cinema e nella responsabilità dell’artista di fronte alla società.
Alla Festa di Roma, che inizia il 13 ottobre, si potrà assistere al suo “testamento” in immagini. Il Festival romano, infatti, proietterà (e aveva anche organizzato un “incontro ravvicinato” col regista) il suo ultimo film “Afterimage” dedicato alla vita del pittore polacco Wladyslaw Strzeminski e alle repressioni da lui subite nel dopoguerra in Polonia per il rifiuto di piegarsi alle regole del “realismo socialista”, ovvero la dottrina ufficiale imposta agli artisti dal Partito comunista. Un altro pezzo di storia della “sua” Polonia, un altro racconto “morale” per metterci in guardia dagli errori fatali della storia passata.

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