Con Francesco, finisce l’epoca del “premio alla carriera” e si fa più marcato il profilo di una Chiesa universale. Più che stravolgere, però, prassi secolari, Bergoglio sceglie la “logica delle persone”. Questo, in sintesi, il ritratto del Collegio cardinalizio tracciato da Daniele Menozzi, ordinario di storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa e condirettore della Rivista di storia del cristianesimo, dopo la nomina di 17 nuovi cardinali che verranno creati da Papa Francesco nel Concistoro del 19 novembre.
Se dovesse scattare una fotografia delle porpore annunciate dal Papa per il prossimo Concistoro, quale inquadratura sceglierebbe?
La prima istantanea la dedicherei al processo di internazionalizzazione del Collegio cardinalizio: un processo che era già cominciato, ma che il Papa vuole rendere sempre più adeguato alle dimensioni universali della Chiesa, estesa in tutti i cinque Continenti e in tutti i Paesi.
In che senso Francesco è diverso dai suoi predecessori, nei criteri di scelta delle nuove berrette?
Il modo tradizionale di scelta del Collegio cardinalizio era sempre stata l’ormai consolidata prassi secolare che considera il cardinalato una sorta di premio alla carriera. Questa logica è sostanzialmente scomparsa.
Il criterio di fondo è l’equilibrio geopolitico?
È il Papa stesso che lo ha confermato, nelle parole pronunciate sull’aereo di ritorno dall’Azerbaijan. La nomina di alcuni cardinali – Madrid, Malines-Bruxelles, Brasilia – corrisponde all’esigenza di mantenere una rappresentanza di cattolicità, di Conferenze episcopali, di comunità cattoliche nazionali particolarmente rilevanti che una Chiesa espressione di tutt0 il pianeta non può non avere. All’interno delle scelte geopolitiche, tuttavia, alcuni elementi sono particolarmente significativi: in primo luogo,
è assolutamente rilevante la presenza delle periferie: Bangui, Papua Nuova Giunea, Mauritius.
Tutte testimonianze di comunità cattoliche non particolarmente significative dal punto di vista quantitativo, ma qualitativamente importanti: segno di una Chiesa che si muove alle frontiere del mondo, dove è più necessaria la spinta verso forme pastorali in grado di parlare ad altri, ai diversi, anche a coloro che non si riconoscono nella religione cattolica.
In questo Concistoro, a differenza dei due precedenti, sono presenti tre nuovi cardinali statunitensi.
È una riprova del fatto che il cattolicesimo americano sia sempre di più una comunità ecclesiale di grande rilievo e importanza per quantità, capacità di proselitismo e risorse.
Se, però, andiamo a guardare le persone, ci accorgiamo che l’equilibrio geopolitico è stato declinato in forme particolarmente coerenti con la linea di Papa Francesco.
Il cardinale di Indianapolis, ad esempio, è stato scelto per aver prestato attenzione al dialogo volto alla comprensione di uno dei problemi cruciali della Chiesa di oggi: la questione femminile. Tra i nuovi cardinali c’è anche il prefetto di una Congregazione, a cui secondo le regole tradizionali spetta quasi automaticamente la berretta: Kevin Joseph Farrell è però il capo di uno dei nuovi dicasteri nevralgici nell’opera di riforma portata avanti da Francesco – il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita – su cui si gioca una delle sfide fondamentali nei confronti della modernità.
Quali “surplus” di novità aggiungono i quatto cardinali non elettori?
La loro nomina è senz’altro il riconoscimento di un ruolo, di una esemplarità di comportamento all’interno della Chiesa. Uno di loro, don Ernest Simoni, è un semplice sacerdote, che non aveva in nessun modo attraversato la carriera ecclesiastica: ancora una volta, non si tratta di un premio alla carriera, ma di una testimonianza di vita cristiana, qualunque sia il proprio ruolo nell’istituzione. In Italia, e non solo, avevamo alcune sedi che portavano automaticamente alla porpora. Con la nomina di Renato Corti a cardinale il Papa ha seguito una logica diversa: non è la sede che determina l’accesso al cardinalato, ma l’impegno pastorale, la dedizione all’attività apostolica, la testimonianza anche molto semplice e silenziosa di adesione alla vita della comunità ecclesiale.
Francesco ha “sconvolto” le regole per la creazione dei cardinali?
Con Francesco non ci troviamo dinanzi allo stravolgimento dei criteri tradizionali nella creazione dei cardinali: troviamo nuovi cardinali nelle sedi pastorali, in posizioni della Curia Romana, nella diplomazia vaticana… I criteri sono gli stessi, ma il modo in cui queste scelte sono state fatte dà un’indicazione di cambiamenti profondi:
Francesco è un Papa che guarda alla sostanza della vita della Chiesa: gli usi secolari vengono superati perché si tratta di guardare alla sostanza della pratica del Vangelo, più che alle forme dell’uso tradizionali.
Un caso paradigmatico in questo senso è quello di Mario Zenari: Francesco vuole portare la Chiesa là dove la testimonianza evangelica è particolarmente rilevante, dove c’è un conflitto ed il messaggio di riconciliazione, di perdono, è particolarmente significatico per mostrare che la Chiesa è presente.
Si può dire che “sinodalità” e “collegialità” siano per Francesco sempre di più le parole d’ordine, nel governo della Chiesa?
Certamente sono due parole che corrispondono alle indicazioni di Papa Francesco. Insieme ad altri due elementi:
contenimento e fine dell’eurocentrismo – con il Collegio cardinalizio che disegna una Chiesa sempre sempre più planetaria – e predilezione per una “Chiesa dialogica”, che ascolta le voci che vengono non solo dalle periferie, ma anche dal basso.
Il Papa sceglie persone che riescono a portare all’interno del futuro Conclave le voci della loro comunità. Un esempio per tutti, Bangui.
In una parola: Francesco sceglie la logica delle persone.
Persone che, con la fantasia del Vangelo, rappresentano un’immagine di Chiesa aperta nei confronti degli uomini di oggi e capace di rendere attrattiva la Chiesa.
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