Immaginate un marziano che, sbarcato sulla Terra, “si stia ritrovando nel bel mezzo del fuoco incrociato di proclami e accuse reciproche, senza riuscire a capire neppure di che cosa si stia parlando”. E’ il punto di partenza dell’ultimo volume di Giuseppe Savagnone, dal titolo esplicativo: “Il gender spiegato a un marziano” (ed. EDB). Quasi trecento anni dopo, la scelta dell’autore per aiutare a districarsi in una delle matasse più ingarbugliate del dibattito contemporaneo è analoga a quella che fece Montesquieu, nelle sue “Lettere persiane” (1721): solo che allora erano i costumi della Francia, l’oggetto dello scambio epistolare “disincantato” dei due protagonisti, oggi è una teoria di cui gli uni demonizzano senza “se” e senza “ma” gli effetti (solo) nefasti, mentre gli altri arrivano a negarne addirittura l’esistenza, sostituendolatout court con il moloch dei “diritti civili”.
Ci vuole un “sano distacco critico”, per accompagnare uno “spaesato interlocutore” nel suo sforzo di orientarsi, la tesi di partenza. Né apocalittici, né integrati, per dirla con Umberto Eco.
Né “catastrofisti”, né “negazionisti”,
proclama Savagnone dando un nome alle opposte fazioni che si fronteggiano sulla “teoria del gender” e prendendo a sua volta posizione nel dibattito. Senza criminalizzare gli uni o gli altri, ma cercando di proporre una posizione originale: non prima, tuttavia, di aver “provato a esporre e a spiegare nel modo intellettualmente più onesto le tesi altrui” e di “aver fatto il possibile”, difendendo la propria idea, “per capire quella degli altri, anche quando non la condivido”. La prima tentazione da cui mettere in guardia: quella di identificare i “catastrofisti” con i cattolici e i “negazionisti” con i cosiddetti “laici”. Gli schieramenti sono trasversali, ed entrambi ben nutriti.
“Perché non attingere dai gender studies “quegli strumenti concettuali che sono di immediata utilizzazione per affrontare i problemi concreti delle persone, lasciando l’orizzonte teorico, inevitabilmente astratto, ai dibattiti delle specialisti?”.
E’ una delle proposte per svelenire i toni del dibattito: “Il marziano sorride, felice che si apra una prospettiva indolore e del tutto plausibile”. Per evitare, però, di ridurre la persona e la sessualità alla caricatura sbandierata dagli ultraconservatori e per non limitare la riflessione alla sola questione dei diritti,bisogna fare luce sul rapporto tra natura umana e cultura, sul significato della corporeità, sull’idea di uguaglianza, con particolare riferimento al problema della famiglia e della genitorialità. “Si tratta di decidere se assecondare o meno un processo già in corso”, la frase che delimita l’ampiezza della sfida da raccogliere. E soprattutto, domanda che suona ancora più problematica: “In che misura?”. Oggi, ad esempio, siamo tutti d’accordo sul fatto che non è “contro natura” per una bambina giocare a pallone o per un maschietto preferire la danza ai giochi di guerra, o che una donna faccia il magistrato o il dirigente d’azienda e che l’uomo cambi i pannolini.
“Ma ci sono ruoli di genere, come la maternità e la paternità, che coinvolgono più profondamente l’identità di genere e quella sessuale”, oltre che un’istituzione sociale fondamentale come la famiglia. “Anche questi sono relativi?”.
Nelle aule scolastiche, il gender si muove tra falsi allarmi e problemi reali, dove i primi rischiano di far perdere di vista i secondi. Qui le trappole si moltiplicano: siamo tutti d’accordo, ad esempio, sul fatto che la “differenza” dell’altro non può mai “costituire un motivo di discriminazione e di emarginazione”, ma ciò non significa che “per rispettare l’identità dell’altro bisogna relativizzare la propria”: questo, “paradossalmente”, sarebbe un’educazione non alla “differenza”, ma alla “in-differenza”. Per Savagnone la domanda da porsi nella scuola “non è se la visione sottesa alle teorie del gender sia valida o meno, ma se la scuola può assumersi la responsabilità di cambiare delle impostazioni culturali che hanno un peso determinante sull’identità dei giovani, senza che prima se ne discuta pubblicamente, e affidando ad un ufficio il compito di decidere, al posto della comunità civile”.
“Naturalisti” (e non più solo “catastrofisti”) e “antinaturalisti” (invece che “negazionisti”): “entrambe le posizioni nascono da esigenze che, in sé, sono valide e contengono perciò qualcosa di vero, anche se lo traducono in forme distorte”. Come in certi “thriller”, le cose non stanno come sembrano, e allora
bisogna andare oltre i fantasmi.
Ed è qui che giunge in soccorso la celebre domanda di Papa Francesco – “Chi sono io per giudicare?” – a proposito dei gay, spunto per “innumerevoli polemiche ed equivoci”. La traduzione giusta, di stampo evangelico, è molto semplice: “altro sono le teorie, altro le persone”. Non si devono mai confondere le teorie con le persone:
“non lo dice il relativismo, ma il magistero della Chiesa”.