Laddove in questo titolo si parla di riduzione del numero dei parlamentari, il riferimento è ovviamente alla composizione del Senato, che nel testo della riforma passa dagli attuali 315 membri (più i senatori a vita) eletti a suffragio universale come rappresentanti della nazione, al pari dei deputati, a 95 rappresentanti delle istituzioni territoriali, tra consiglieri regionali e sindaci (più i senatori di diritto, cioè gli ex presidenti della Repubblica, e cinque di nomina presidenziale in carica per sette anni e non più a vita). I nuovi senatori vengono eletti dai consigli regionali – i tecnici parlano di elezione indiretta o di secondo grado – “in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”.
In che modo questo avverrà concretamente lo stabilirà la legge elettorale che dovrà essere approvata dalle Camere (in Italia le leggi elettorali non sono leggi costituzionali).
Secondo i criteri stabiliti dalla riforma costituzionale e con l’ancoraggio al dato demografico dei censimenti, tra i 95 senatori elettivi si calcolano nella situazione attuale (censimento del 2011) 74 consiglieri regionali distribuiti secondo la popolazione di ogni regione e 21 sindaci, uno per regione più le due province autonome.
Dunque non avremo più le elezioni per il Senato come le abbiamo conosciute finora, perché questo organismo avrà – per dirla sempre con gli esperti – un “rinnovo parziale continuo”. In altre parole i senatori di ciascuna regione cambieranno con il rinnovo dei rispettivi consigli regionali e decadranno quando il loro mandato locale cesserà. Ai senatori non spetterà l’indennità parlamentare in quanto già destinatari degli emolumenti previsti dalla loro carica regionale, che non potrà superare la somma percepita dal sindaco del comune capoluogo. La riforma prevede inoltre che ai gruppi consiliari delle Regioni non potranno essere erogati “rimborsi o analoghi trasferimenti monetari” a carico della finanza pubblica.
E qui siamo già nel terzo punto, quello del “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”. È uno dei terreni più controversi della campagna referendaria. Da un lato ci sono alcuni punti fermi, come quelli che abbiamo elencato, a cui vanno aggiunti la definitiva abolizione delle Province (peraltro già ridotte ai minimi termini con legge ordinaria, ma non del tutto eliminate proprio perché previste nella Costituzione) e la soppressione del Cnel, su cui torneremo più avanti. Dall’altro lato, però,
la portata effettiva dei risparmi che si otterrebbero con il complesso della riforma è affidata a delle stime, su cui le valutazioni dei sostenitori del sì e del no divergono drasticamente.
Il quarto punto del titolo della legge è la già citata soppressione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. È stato istituito nel 1957 sulla base dell’art.99 della Costituzione, come “organo di consulenza delle Camere e del Governo”, dotato del potere di “iniziativa legislativa” e composto da “esperti” e “rappresentanti delle categorie produttive”.
Un organismo di compensazione sociale molto importante sulla carta, ma che nonostante la riforma del 1986 in tanti anni non è mai decollato
(per colpe proprie e per la sistematica marginalizzazione nella vita politico-istituzionale) e di cui forse molti cittadini non conoscono neanche l’esistenza. È un dato di fatto che si può affermare, almeno questo, senza il timore di passare per partigiani di una tesi o dell’altra.
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